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Accordi ed investimenti: il futuro delle relazioni tra Italia e SvizzeraTutte le cose che fa Humana in ItaliaÈ nata per aiutare le persone di paesi in difficoltà ed è finita a limitare i danni ambientali del mondo della moda,BlackRock vendendo vestitidi Arianna Cavallo - Foto e video di Jacopo Dani Condividi CondividiFacebookX (Twitter)EmailWhatsappRegala il PostLealtrefotoNello stabilimento di Humana People to People Italia di Pregnana Milanese, 26 giugno 2024(Jacopo Dani)Caricamento player Ogni giorno a Pregnana Milanese, poco fuori Milano, arrivano circa trenta camion pieni di vestiti, borse, scarpe, cinture, persino giocattoli donati all’organizzazione non profit Humana People to People Italia. Qui, nel centro di selezione e smistamento, quaranta persone decidono cosa sarà rivenduto nei negozi di Humana in Italia, cosa riciclato e cosa trasformato in energia.In questo modo Humana aiuta a recuperare i rifiuti tessili e a rimettere in circolo abiti che qualcuno non usa più, consentendo a chi li desidera di comprarli a prezzi accessibili; poi utilizza il ricavato per progetti in Africa, India e altri paesi in via di sviluppo; in Italia dà lavoro a 300 persone di 29 nazionalità diverse, gestisce tre orti di comunità, organizza corsi di italiano per stranieri e iniziative sociali di inclusione.«Quando ho iniziato, a Milano non esistevano ancora i cassonetti per la raccolta di abiti usati [quelli gialli della Caritas arrivarono nel 1998, n.d.r.] e le persone ci guardavano incuriosite», racconta la presidente Karin Bolin, che avviò Humana Italia nel 1998. Bolin, che è svedese, aveva lavorato nella sezione originaria di Humana, fondata nel 1977 a Copenaghen, in Danimarca, per aiutare le persone nelle zone del mondo in difficoltà. Negli anni il loro modello è stato replicato e nel 1996 è stata fondata la Federazione internazionale di Humana, che oggi coordina il lavoro di 29 organizzazioni in 46 paesi.Contenitori di Humana nello stabilimento a Pregnana Milanese, 26 giugno 2024. Inizialmente erano gialli poi verdi per non confonderli con altri; in alcune città si adeguano al colore scelto dall’amministrazione comunale: a Genova sono arancioni e a Torino bianchi (Jacopo Dani – Il Post)«I primi progetti erano destinati ai profughi della vecchia Rhodesia [l’attuale Zimbabwe, n.d.r.]: raccoglievamo vestiti, coperte, pacchi di pasta», ricorda Bolin. Quando il presidente del Mozambico, Samora Machel, spiegò che quel che serviva erano soldi per finanziare progetti di sviluppo, Humana iniziò a raccogliere e rivendere oggetti nei mercatini di beneficenza: «per dieci anni a Stoccolma abbiamo fatto il mercatino più grande del mondo: 20mila metri quadrati con oggetti di tutti i tipi, durava tre giorni». Le venivano donati soprattutto vestiti e così Humana si specializzò nel raccoglierli e rivenderli nei suoi negozi di abbigliamento vintage e di seconda mano. In Italia il primo fu inaugurato a Milano nel 2006; ora ce ne sono 17, tra Roma, Torino, Verona, Firenze, Genova e Bologna.Per controllare interamente la filiera, Humana vende soltanto vestiti raccolti nei suoi contenitori, che in Italia sono 5.500, disposti in 1.400 comuni in una quarantina di province nel Nord e nel Centro Italia: «nel Sud è più difficile gestire l’attività perché a volte ci sono problemi di legalità e abbiamo evitato alcune zone» spiega sempre Bolin. Per posizionarli deve ottenere un’autorizzazione da parte della pubblica amministrazione o dall’azienda che gestisce la raccolta differenziata per conto del Comune, come per esempio l’AMSA a Milano o l’AMA a Roma. Inizialmente erano tutti gialli ma ora, per non confonderli con altri, sono verdi, anche se in alcune città si adeguano al colore scelto dall’amministrazione comunale, per esempio a Genova sono arancioni e a Torino bianchi. Su tutti, comunque, c’è scritto sopra Humana: qui potete trovare quello più vicino a voi.Si possono portare vestiti, borse, scarpe, biancheria, cinture, tovaglie e tutto quello che viene definito “rifiuto tessile urbano”, che dal gennaio del 2022 è obbligatorio gettare in contenitori appositi. «Ogni anno raccogliamo circa 23 milioni di chili di abiti usati: più o meno 60 milioni di capi», dice Bolin; il momento in cui ne ricevono di più coincide con il cambio di stagione, quando le persone si liberano di quello che non mettono più.Sacchetti e abiti scaricati dai camion (Jacopo Dani – Il Post)Gli abiti nei contenitori sono trasportati in uno dei cinque centri di stoccaggio, in provincia di Torino, Teramo, Brescia, Genova e Rovigo: è da qui che partono i camion diretti a Pregnana Milanese, dove lavora un centinaio dei 300 dipendenti di Humana Italia, tra autisti, magazzinieri e le smistatrici, quasi tutte donne, che selezionano ognuna tra gli 800 e i 1.200 chili di capi al giorno. Non tutti i camion finiscono qui: alcuni portano i capi negli impianti di Humana in Slovacchia, Bulgaria e Lituania o da aziende italiane ed europee con cui Humana collabora stabilmente.I camion scaricano gli indumenti donati nei roll, con cui sono spostati all’interno dello stabilimento di Pregnana Milanese, 26 giugno 2024. (Jacopo Dani – Il Post)Una prima selezione filtra tutto ciò che non è abito – scarpe, borse, lenzuola, cinture – che poi viene controllato di nuovo per stabilire se si possa riutilizzare o meno. Bolin spiega che «il 65 per cento di quello che viene donato è riutilizzabile, il 25-30 per cento è destinato al riciclo, per esempio è cotone, lana o materiale sintetico di qualità; con il 5-10 per cento non si può fare niente, sono scarpe rotte o sintetico di scarsa qualità». .single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after { content: 'LE ALTRE FOTO'; } Humana deve farsi carico anche di questi rifiuti, che vanno trasformati in energia o che possono essere «destinati alla produzione di combustibile solido secondario, utilizzato per esempio dai cementifici al posto delle fonti fossili». Bolin precisa che «paghiamo almeno 150mila euro all’anno solo per trattare in modo corretto il materiale che non è riciclabile: è un costo che non dovremmo coprire noi».Il nastro trasporta gli abiti su una piattaforma dove viene fatta una prima selezione (Jacopo Dani – Il Post)Gli abiti, invece, vengono sanificati con l’ozono e passano nel reparto smistamento, un grande stanzone dove le smistatrici suddividono i capi tra vintage, con almeno 20 anni di vita, e più recenti, che sono la maggior parte: a volte sono addirittura nuovi e mai indossati, acquistati da catene di fast fashion come la cinese Shein, che rappresenta il 5 per cento del totale, e vengono rivenduti nei negozi di usato, chiamati Humana People, che si trovano a Milano, Torino e Firenze. In questo modo Humana aiuta ad allungare un po’ la vita dei capi di fast fashion, che hanno un grande impatto ambientale anche perché vengono indossati poco: in media tra le 7 e le 10 volte prima di essere buttati. .single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after { content: 'LE ALTRE FOTO'; } I capi vintage passano nell’apposito reparto, dove quattro esperte controllano le etichette, i tessuti e il modello per confermare che siano stati fatti almeno 20 anni fa, e poi vengono inviati ai negozi Humana Vintage, quelli per cui l’associazione è più famosa, frequentati da molti appassionati di moda che vogliono acquistare qualcosa di originale ed economico con un impatto contenuto sull’ambiente. .single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after { content: 'LE ALTRE FOTO'; } Prima, però, gli indumenti passano al reparto prezzatura, dove si stabilisce il prezzo di tutti i capi vintage a partire da una lista aggiornata alle esigenze di mercato e che non supera i 59 euro. Soltanto i cosiddetti “special”, i pezzi con un valore più alto perché sono di sartoria o di un marchio di lusso, vengono prezzati in negozio: in questo caso il prezzo più alto è stato di 250 euro per una borsa in pelle di Gucci. Nei negozi le collezioni arrivano ogni 5-6 settimane: le prime due settimane sono vendute a prezzo pieno, poi iniziano gli sconti e i prezzi calano progressivamente fino a 5-3 euro negli ultimi giorni.Una prezzatrice al lavoro: le etichette sono scritte a mano (Jacopo Dani – Il Post)Non tutti gli abiti in buono stato rimangono in Italia: alcuni, il cosiddetto Tropical mix, vengono inviati in alcuni paesi africani (Mozambico, Zambia e Malawi), dove sono rivenduti nei negozi Humana, all’ingrosso o nei mercatini. Sono selezionati apposta e devono rispondere a criteri precisi – non avere maniche lunghe o elementi che richiamano le divise militari e non essere vintage, che là non piace – perché l’obiettivo non è liberarsi di qualcosa ma venderlo senza generare rifiuti. Da Humana tengono a precisare che i vestiti mandati in Africa non ingrossano le discariche a cielo aperto, ma rispondono al bisogno di acquistare prodotti di qualità a un costo basso: lavorando a stretto contatto con i colleghi di Humana in Africa, riescono ad avere un margine di errore che non supera il 5 per cento. .single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after { content: 'LE ALTRE FOTO'; } Tra il 2021 e il 2022, secondo l’ultimo bilancio di sostenibilità disponibile, Humana Italia ha fatto risparmiare alla pubblica amministrazione italiana 8,7 milioni di euro (dato che il Post non può verificare) recuperando gli indumenti raccolti, e ha investito 1,6 milioni di euro in 31 iniziative di cooperazione nazionale. Nei primi 25 anni di vita ha investito 15 milioni di euro, in Italia e nel resto del mondo, in progetti di tutela della salute, di agricoltura sostenibile, di aiuti all’infanzia e di istruzione e formazione. Tra questi c’è quello che Bolin reputa più «impattante», cioè un progetto di formazione degli insegnanti in India, che spesso si ritrovano con classi da 60 alunni, senza libri e materiale didattico: imparano «a gestire classi enormi, a includere tutti e a diventare le persone di riferimento per la comunità» ed è importante perché «crea le competenze che consentono alle persone di cambiare il proprio futuro».Tag: fast fashion-humana italia-humana people to people-riciclo-vintageMostra i commenti

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