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Notizie di Esteri in tempo reale - Pag. 641Monsignor Piero Coda,ETF segretario generale della Commissione teologica internazionale - Archivio COMMENTA E CONDIVIDI Rattristato certo. Ma non particolarmente sorpreso. Monsignor Piero Coda, uno dei più noti teologi italiani, legge con disincanto i contrasti emersi dopo la morte di Benedetto XVI. Conosce infatti la natura umana e quanto sia facile lasciarsi vincere dall’amarezza e dal pettegolezzo. L’importante però è non dimenticare mai la “casa” in cui si abita, la Chiesa, il cui paradigma vitale dovrebbe essere la ricerca di unità e comunione. Uno stile e insieme un obiettivo richiamati in queste ore da sempre più numerose voci all’interno della comunità ecclesiale. I fatti sono risaputi. Pressoché in contemporanea con la scomparsa di Benedetto XVI nell’anticipazione del libro “Nient’altro che la verità” scritto insieme al vaticanista Saverio Gaeta, e durante alcune interviste, monsignor Georg Gänswein segretario particolare di Joseph Ratzinger, ha attribuito al Papa emerito un profondo dispiacere per l’intervento, letto come una stretta, di Francesco sulla Messa in latino. A propria volta l’arcivescovo ha sottolineato l’amarezza provata quando, da prefetto della Casa pontificia, gli venne chiesto di occuparsi solo del Pontefice emerito. Sono voci di contrasti, immagini “grigie” che mal si abbinano al clima di affetto e stima che hanno sempre contraddistinto i rapporti tra Ratzinger e Francesco. «Sì – osserva Coda, segretario generale della Commissione teologica internazionale –, possiamo riconoscere dopo questi dieci anni che quella che ci hanno dato è stata una testimonianza di comunione, nutrita dalla fede in Gesù che guida la Chiesa ed espressa nel rispetto reciproco, nell’attenzione fraterna, nel reciproco sostegno. Benedetto XVI ha detto più volte di voler sostenere nella preghiera il ministero di papa Francesco, sentendosi a sua volta sostenuto dal suo amore. Nessun dubbio che – per entrambi – il Papa è uno solo: quello che tempo dopo tempo lo Spirito Santo chiama ad esercitare il ministero di unità per tutta la Chiesa».Appena morto Benedetto XVI si sono levate voci amare. Ne è stato sorpreso?Sì e no. Sì, perché colpisce e rattrista sempre il fatto che ci si lasci andare a critiche, risentimenti, e qualche volta anche malevolenze. No, perché sappiamo di che pasta tutti siamo fatti, e dobbiamo aver pazienza con noi stessi prima che con gli altri. Sempre di nuovo ricordandoci l’esortazione di Gesù – non a caso l’unica che, nel Padre nostro, riguarda le relazioni interpersonali – a essere misericordiosi gli uni verso gli altri come lo è, nei confronti di tutti, il Padre che è nei cieli.C’è chi sostiene che contrasti e tensioni nella Chiesa ci sono sempre stati, che semplicemente adesso emergono più chiaramente.Quelli che lei definisce contrasti, a ben vedere, sono almeno di tre tipi. Quelli che nascono – lo dico con san Paolo – dall’“uomo vecchio” che continua a contrastare, in noi, la vita dell’“uomo nuovo”: gelosie, invidie, desiderio di apparire e farsi valere... E poi quelli che germogliano semplicemente dalla diversità di carattere, di formazione, di obiettivi, di idee, o anche solo da incomprensioni e fraintendimenti. E poi i contrasti che – in buona coscienza – nascono dalla volontà di portare avanti un punto di vista o una scelta ...Si parla di lotta tra progressisti e conservatori, tra sinistra e destra. Ma sono categorie applicabili alla Chiesa?La Chiesa è “una sola realtà complessa” – insegna il Vaticano II – con una dimensione divina e mistica e una dimensione umana e storica. In quanto soggetto storico direi che, dal punto di vista sociologico, è fisiologico che nella Chiesa convivano un’istanza più conservatrice e un’istanza più progressista. Ma avendo a che fare, nella Chiesa, con la missione di trafficare quella “eredità di Dio” che è il Vangelo di Gesù non si può trattare di partiti in competizione tra loro, ma dell’esperienza di una polarità vitale: quella tra l’impegno a conservare con fedeltà il “deposito della fede” e quello a fare di esso con creatività il lievito di una storia sempre nuova.Il Papa parla spesso del chiacchiericcio, non c’è il rischio che questi sfoghi, che le accuse verso di lui, lascino delle ferite poi difficili da rimarginare?Già l’apostolo Giacomo metteva in guardia dalla lingua come quel «piccolo fuoco che può incendiare una grande foresta». Quante volte la pazienza e la misericordia potrebbero evitare dispute persino cruente! E ciò senza venir meno al bisogno di parresia. L’essenziale è l’intenzione indirizzata al bene vero e più grande per cui si parla ed agisce, un’intenzione che, in ottica cristiana, deve tener conto, per quanto possibile, anche del modo con cui viene recepita dall’altro la parola che gli rivolgi o che lo riguarda. Non bisogna mai parlare male di un altro in sua assenza. Si può parlare di lui, ma per il suo bene. Il chiacchiericcio distrugge l’atmosfera di fraternità e rende più difficile edificare ciò che è bene. Le ferite che ne possono venire sono profonde. Non toccano soltanto chi le riceve, ma infieriscono contro il Corpo di Cristo che siamo noi: membra gli uni degli altri perché membra dell’unico Corpo.Il Cammino sinodale che, e non sbaglio, indicherà anche uno stile di vita della Chiesa, può essere una risposta alle visioni differenti, nel senso della comunione?Il Cammino sinodale si sta rivelando – anche se è ancora ridotto il numero di coloro che vi sono effettivamente coinvolti – una vera scuola di comunione per tutto il popolo di Dio. Non solo perché in esso ci si esercita nell’ascolto della Parola di Dio, nell’ascolto gli uni degli altri, nello scambio dei propri doni, nel discernimento comunitario. Ma anche perché vi si impara – come leggiamo nella Lumen fidei di papa Francesco in cui sono confluiti i contributi di Benedetto XVI (cf. n. 7) – ad esercitare «un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune di tutte le cose» (n. 27). Il criterio secondo cui «l’unità prevale sul conflitto» è un invito a esercitare «uno stile di costruzione della storia dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita» (Evangelii gaudium, 228).Ma a suo modo di vedere qual è l’eredità più importante che ci ha lasciato Benedetto XVI?Suo imperdibile contributo è stato richiamare con la sua autorevolezza di uomo di Dio e di grande teologo una decisiva verità: l’opera di rinnovamento messa in moto dal Vaticano II va promossa in presa diretta col nucleo vivo del Vangelo di Gesù e nell’alveo della Tradizione ecclesiale, immaginando oggi con uno slancio nuovo quell’allargamento della ragione in dialogo con la fede che solo è capace d’implementare le strutture portanti – a livello culturale, politico, economico – di una città planetaria della verità, della giustizia, della fraternità e della pace.

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