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Non è difficile rinvenire in queste posizioni una deriva totalitaria della teoria ortodossa della “sinfonia” nel rapporto Chiesa/Stato e l’origine fondamentalista-evangelicale di certe pericolose espressioni. Di fronte a questi goffi tentativi di evocare, senza invocarlo, l’Assoluto trascendente, sarà sempre necessario il riferimento alla parola di Dio che recita: «Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano» (Es 20,7). Il nostro contesto richiede una rinnovata teologia politica e il coinvolgimento dei laici nel sapere che sgorga dalla fede, affinché tali tendenze non abbiano a diffondersi anche nei nostri ambienti cattolici. L’impegno culturale dei credenti ha bisogno di riflettere sulla laicità e di attivare percorsi di pensiero all’interno dell’atto di fede e dei suoi contenuti.Non intendiamo qui riflettere sulla fragilità della democrazia, di cui si è occupata la settimana sociale dei cattolici in Italia, celebrata di recente, ma sull’esperienza di fragilità che, in particolare nelle vicende degli Stati Uniti, sta attraversando coloro che ambiscono al potere in quel contesto. Se da un lato si tratta della debolezza dovuta all’età e ad eventuali carenze psicosomatiche, dall’altra dell’esposizione alla possibilità di essere aggrediti e feriti, fortunatamente non uccisi (anche se i morti ci sono stati) nel momento in cui si affrontano kermesse pubbliche con ampia partecipazione di popolo. Come cattolici abbiamo vissuto entrambe le esperienze sia nelle vicende di pontefici che hanno continuato il loro servizio pur nella precarietà delle loro condizioni fisiche e a seguito di un attentato micidiale e per fortuna non letale, come Giovanni Paolo II o, come Benedetto XVI, hanno deciso di ritirarsi perché la loro fragilità non influenzasse il loro ministero. Oggi siamo in presenza di un vescovo di Roma che esercita il suo magistero non da un’imponente sedia gestatoria, ma da una sedia a rotelle. Quale lezione proviene da questi eventi e da queste esperienze?In occasione dell’ultimo drammatico avvenimento, mi tornava alla mente il finale della serie Il trono di spade, che tanto ha fatto discutere, proprio perché controcorrente rispetto a quanto ci si potesse attendere dagli esiti di una lotta per il potere. In quel contesto, risulta particolarmente significativo il discorso di Tyrion, il nano saccente, con la sua proposta spiazzante: «In queste ultime settimane ho avuto tanto tempo per riflettere. Ho riflettuto sulla nostra storia sanguinaria. Sugli errori che abbiamo commesso. Cosa unisce le persone? Le armate? L’oro? I vessilli? Sono le storie! Nulla al mondo è più forte di una buona storia. Niente può fermarla. Nessun nemico può sconfiggerla. E chi ha una storia migliore... di Bran lo Spezzato? Il bambino che è caduto da una torre ed è sopravvissuto. Non avrebbe più camminato, perciò ha imparato a volare. Si è spinto oltre la barriera... un ragazzo storpio... per diventare il “corvo con tre occhi”. È la nostra memoria... il custode di tutte le nostre storie. Di guerre, carestie, matrimoni, nascite, massacri. I nostri trionfi... le nostre sconfitte... il nostro passato. Chi meglio di lui per guidarci verso il futuro?». La fragilità offre un’altra prospettiva sul mondo, sul potere, sulla politica e sul ruolo che si è chiamati ad esercitare. Un terzo occhio appunto.E questo perché l’esperienza e la coscienza dei propri limiti consente di evitare l’assolutizzazione del proprio potere. Abbiamo ancora negli occhi e ci servono da monito le immagini di un dittatore che esibisce la propria forza fisica, facendosi riprendere mentre a dorso nudo falcia il grano o mentre cavalca un destriero con spavalderia. Ai dittatori difetta la coscienza dei propri limiti. Ma proprio in presenza di persone fragili che detengono il potere, alla debolezza del capo dovrebbe sopperire la forza della politica, nella misura in cui chi è chiamato a governare dovrà decidere di farsi aiutare e scegliere con grande accortezza e spirito di discernimento i propri collaboratori, magari evitando di circondarsi di propri sosia.La riflessione teologica dovrebbe soccorrerci nel tentativo di evitare teocratici fondamentalismi, che conducono sempre alla violenza e negano il dialogo democratico. E una teologia politica cristiana, che tematizzi il senso del potere, non può non prendere le mosse dal Nuovo Testamento. Il luogo paolino più interessante a questo riguardo e che va adeguatamente interpretato si rinviene nell’incipit del cap. XIII della “Lettera ai Romani”, che recita: «non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio», in latino «Non est enim potestas nisi a Deo» (Rm 13, 1b). Sarebbe oltremodo interessante indagare la differenza fra “autorità” e “potere”, quest’ultimo termine adottato nella vulgata. Ogni potere viene da Dio, ma ne siamo certi? Anche quello di Hitler o di Stalin? Il contesto dovrebbe aiutare la comprensione di un’espressione così generale. Paolo, infatti, qui è preoccupato di mettere i destinatari della lettera (giudeo-cristiani residenti a Roma) in guardia dalla tentazione di opporsi in maniera violenta alle autorità dell’impero, che invece intende rassicurare, presentando i cristiani come buoni cittadini, fedeli alle leggi. Ma un ulteriore sviluppo nella dinamica neotestamentaria sul tema del potere lo possiamo indicare nel dialogo fra Gesù e Pilato, nel corso del processo “civile” cui è sottoposto il Nazareno: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv 19,11). Il fatto che il governatore non è all’origine del proprio potere (e questo riguarda ogni governante) comporta che non lo si possa esercitare in termini assoluti e prevaricatori. L’origine divina del “potere”, lungi dal conferirgli una dimensione messianica, viene da Gesù evocata per relativizzarlo.Il 12 luglio scorso è passato a miglior vita (speriamo) l’artista statunitense, esponente di spicco della videoarte, Bill Viola. In questa occasione è stata ripresa da alcuni media l’intervista, rilasciata nel 2012 a Friedhelm Mennekes ed apparsa sul quaderno 3886 (19 maggio di quell’anno) de “La Civiltà Cattolica”. Un passaggio di quel dialogo, intitolato Corpi di luce, mi sembra possa essere ripreso a proposito del nostro tema, perché fa riflettere proprio sul ruolo della fragilità e sulla sua capacità di dotarci di un terzo occhio. L’artista riferisce di un suo colloquio con un maestro zen in Giappone: «abbiamo studiato zen con un uomo meraviglioso di nome Dian Tanaka, quando abbiamo vissuto in Giappone nel 1980-81. E un giorno egli mi ha detto qualcosa di veramente importante, a cui non avevo mai pensato prima. Gli stavo mostrando alcune delle mie opere e gli stavo spiegando come avessi avuto problemi con alcuni pezzi, ed egli mi ha detto: “Devi imparare a lavorare da una posizione di debolezza”». Ovviamente il maestro si riferiva al lavoro dell’artista, ma la politica non è forse anch’essa un’arte? Anzi l’arte del ben governare, che può esprimersi come tale proprio a partire dalla fragilità di chi è chiamato a tale ruolo.

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