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Ha un malore improvviso al maneggio: morta 49enne

Un boa constrictor di due metri trovato in strada a MilanoNotizie di Cronaca in tempo reale - Pag. 420Ragazza morta di leucemia, i genitori hanno detto no alla chemio: "Hanno condizionato la sua scelta"

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Incidente a Olgiate Molgora: tre feriti, tra cui un bambinoDalla direttiva europea si aprono nuove strade per la tutela delle donne vittime di violenza,MACD ma in Italia non si finanziano adeguatamente le case rifugio e molte donne rimangono escluse da un meccanismo di protezione fondamentale per uscire dalla spirale di violenza maschile. Una donna su cinque torna nella casa in cui ha subito violenze. In Sicilia la situazione più grave: «Scarsa sinergia con i centri antiviolenza e una Regione che non controlla, non coordina e non finanzia queste strutture»La nuova direttiva europea da un lato, dall’altro la situazione italiana sui femminicidi, a fronte dei 36 avvenuti in Italia con l’inizio del 2024: un dato sempre più allarmante, soprattutto se letto alla luce degli scarsi interventi da parte del governo, del sottofinanziamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio e degli scarni interventi per contrastare la violenza maschile sulle donne. Un contesto nel quale centri antiviolenza e case rifugio si trovano a dover lavorare spesso senza fondi e abbandonati dalle regioni in cui operano.La direttiva UeIl consiglio europeo ha approvato, nelle scorse settimane, in via definitiva, la nuova direttiva sulla lotta alla violenza alle donne e alla violenza domestica, per dotarsi di standard comuni nel contrasto alla violenza di genere. Un complesso di norme che affrontano il problema strutturale della violenza contro le donne e della violenza domestica. La direttiva, che oggi entra in vigore, prevede che gli Stati membri rendano reato atti come le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati e varie forme di violenza informatica, lo stalking online, le molestie e l’istigazione alla violenza in rete.All’interno della direttiva una particolare attenzione è stata posta sulla questione della tutela dei minori in contesti di violenza domestica e sulle misure per prevenire la vittimizzazione secondaria. Ciò che manca nella direttiva è una definizione comune di “stupro”, un punto assai importante che, durante le negoziazioni, era stata assai discussa e contestata.In merito a questo la Rete Wave, che rappresenta oltre 1.600 servizi specializzati per le donne in 46 Paesi europei, aveva scritto un appello alle relatrici nel Parlamento europeo dichiarando: «La resistenza del Consiglio a includere l’articolo 5 sullo stupro è allarmante. Esortiamo a continuare a fare advocacy per garantire che questa protezione essenziale non venga omessa». È stato infatti cancellato l’articolo 5 del testo originario che conteneva la definizione di stupro come «rapporto sessuale senza consenso». FattiPerché i manifesti contro la violenza sugli uomini ostacolano la lotta ai femminicidiFederica PennelliCase rifugioSulla questione legata ai luoghi di protezione per donne vittime di violenza maschile, la direttiva afferma che i servizi di assistenza specialistica, tra cui le case rifugio e i centri anti-stupro «dovrebbero essere considerati essenziali durante le crisi e gli stati d'emergenza, incluse le crisi sanitarie. L'obiettivo dovrebbe essere la continuità di tali servizi in situazioni in cui i casi di violenza domestica e di violenza contro le donne tendono ad aumentare».Con una media da inizio 2024 di sei femminicidi al mese, le case rifugio rappresentano, per le donne, una via d’uscita fondamentale dalla violenza maschile. Eppure, in Italia, a causa delle politiche regionali disomogenee, non esiste l’obbligo da parte delle amministrazioni comunali di inserirle in questi luoghi protetti, lasciandole in balia di contesti familiari violenti, spesso insieme a minori.Quando le donne accolte da uno dei centri antiviolenza si trovano in una situazione di rischio, le operatrici propongono loro l’ospitalità in sicurezza in una delle case rifugio. Secondo Antonella Veltri, presidente D.i.Re, «le politiche regionali non sono omogenee sul territorio nazionale e, ancora oggi, le case rifugio vengono censite e quindi finanziate in modo differente».Non esiste, infatti, per le amministrazioni comunali l’obbligo di inserire le donne in casa rifugio, e ciò «fornisce loro un motivo per non finanziarle».Dall’ultimo rilevamento D.i.Re con i dati relativi al 2023 i centri che dispongono di almeno una casa rifugio sono complessivamente 66, corrispondenti al 59%. Si registra anche per il 2023, come per gli anni precedenti, un aumento degli appartamenti di cui le case dispongono (si passa da 198 nel 2022 a 227 nel 2023) e una disponibilità di 1.190 posti letto.Pur essendo numeri significativi, lo sforzo non è ancora sufficiente per rispondere ai bisogni delle donne, delle loro figlie e figli: Infatti, «nel 2023 sono state 673 le donne che non sono riuscite ad essere accolte dalle case rifugio della rete D.i.re. Questo non succederebbe se le politiche nazionali, regionali e locali fossero orientate alla valorizzazione del ruolo delle case rifugio, soprattutto quando collegate ai centri antiviolenza». Non basta dare ospitalità, dunque, è necessario che «la metodologia sia coerente con i progetti di libertà delle donne, per la loro protezione, come più volte segnalato anche dagli organismi sovranazionali, e per il loro empowerment».Troppo spesso, conclude Veltri, «le donne a rischio vengono inserite in strutture non specifiche, pensate per l’ospitalità di altri target di beneficiari, inficiando così a volte un positivo percorso di uscita dalla violenza». ItaliaIl reddito di libertà è un miraggio per il 50 per cento delle donne che subiscono violenzaFederica PennelliFocus SiciliaNella regione Sicilia, Anna Agosta, presidente dell'Associazione Thamaia e Consigliera nazionale della rete di centri antiviolenza D.i.Re, racconta a Domani: «Non abbiamo finanziamenti dalla Regione, che non coordina, non controlla e, su tutto, non finanzia queste strutture. Vengono utilizzati i fondi stanziati dal Dipartimento pari opportunità che poi vengono ripartiti, qui in Sicilia, dalla regione. Qui sono ripartiti per numero di centri antiviolenza e case rifugio presenti sul territorio».Il problema che evidenzia Agosta riguarda, oltre i finanziamenti, il fatto che «pochissime case rifugio sono collegate ai centri antiviolenza, mentre sarebbe importante che le donne potessero fare un percorso al centro antiviolenza perché, all’interno della casa rifugio, ricevono supporto ma il percorso di consapevolezza e empowerment che si fa nei centri è quello che rappresenta, per loro, un momento fondamentale per riprogettare la propria vita fuori dalla spirale di violenza».Le donne, spesso, sono sradicate dal proprio territorio e da quello dei loro figli, per andare in una casa rifugio distante da dove vivono e questo, secondo i dati Istat, porta quasi una donna su cinque a lasciare la struttura per tornare dall’uomo violento (il 18% in Sicilia, il dato nazionale è del 13,7%).Nelle Isole, infatti, c’è la percentuale più alta di abbandono di queste strutture rispetto al resto d’Italia: «È molto difficile per queste donne entrare in una casa rifugio a indirizzo segreto, questo significa trovarsi a convivere con regole di sicurezza e con altre persone, in strutture molto promiscue in cui ci sono donne con altri tipi di difficoltà e questo non va bene. Una donna in casa rifugio ha delle esigenze di segretezza e sicurezza che mal si conciliano con le altre».Se non si creano percorsi virtuosi con i centri antiviolenza, dunque, non si riesce a rimanere in casa rifugio, anche a fronte del fatto che le donne si trovano davanti al problema di un reddito di libertà inconsistente, che le fa interrogare sul loro futuro fuori dalla casa protetta, e dunque di scegliere di tornare alla vecchia vita. FattiStupri, consenso e morti per parto: l’autodeterminazione delle donne procede troppo a rilentoMicol MaccarioPrecarietà e pochi finanziamentiQuesto accade perché, in molti territori, non è presente il centro antiviolenza e dunque le case rifugio non possono inviare le donne a questo percorso. In altri territori, come quello di Catania, le case rifugio sono gestite da cooperative multiservizi e non strettamente legate alla lotta contro la violenza maschile sulle donne, non hanno dunque «quella visione di insieme, tanto che la Conferenza stato-regioni ha pubblicato i nuovi standard e ha indicato, all’articolo uno, che questi luoghi devono essere gestiti da cooperative che hanno da statuto il tema della violenza maschile sulle donne come prevalenza, che deve emergere anche dal bilancio».Altro problema riguarda il pagamento delle rette: «Il Comune di residenza della stessa paga la retta della casa rifugio, ma molto spesso succede che i Comuni abbiano ritardi molto forti nei pagamenti, e ciò mette in difficoltà le organizzazioni, che spesso sono costrette a chiudere o a vivere in condizione di precarietà.In Sicilia «non avendo una regione che ha nel proprio capitolo di bilancio il tema della violenza maschile sulle donne, noi viviamo grazie alla nostra progettazione autonoma», che si traduce in progetti di fondazioni, bandi europei o nazionali.Un altro dato sconcertante riguarda il dato economico dei finanziamenti: per il centro antiviolenza, l’Associazione Thamaia prende fondi dallo Stato che si aggirano intorno ai venti/trenta mila euro all’anno, una cifra con la quale pagano a stento le spese.Le loro operatrici, inoltre, lavorano tutte a partita iva perché non hanno la liquidità necessaria per assumere: questo si traduce in precarietà lavorativa delle lavoratrici e alla precarietà dell’organizzazione stessa, a fronte di un grande lavoro di formazione: «Se trovano lavoro stabile, nonostante siano molto competenti e appassionate, lasciano il lavoro per uno con una condizione di lavoro meno precaria e i centri perdono il lavoro di formazione fatto con quella persona».Il quadro della situazione, soprattutto al sud Italia, appare preoccupante alla luce di un fenomeno strutturale come quello della violenza maschile sulle donne, cui le operatrici cercano di far fronte nonostante la mancanza di fondi e la precarietà lavorativa.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFederica PennelliAutrice freelance. Si occupa di sanità, diritti, salute mentale e femminismi. Inizia a Radio Sherwood nel 2004 con la rassegna stampa e il giornale radio, poi a La Svolta. Co autrice del podcast "Cultdown" sul mondo della cultura durante la pandemia e autrice dell'inchiesta radiofonica sugli Opg "Ergastoli bianchi"

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