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migrantiÈ più importante la nostra storia o la nostra geografia?VOL Federica Manzon arriva in libreria con un’opera i cui diritti sono già stati acquistati in Francia e in Portogallo. Un libro su appartenenza, identità e memoria, in coincidenza del 70esimo anniversario – 5 ottobre 1954 – dei patti per la riunificazione della città giuliana all’Italia Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le ali. Stamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia. Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole baltico. Le sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava. Le campane battono l’ora, il capitano della barca è entrato in cabina a controllare che tutto sia pronto. Alma si affretta a raggiungere la passerella, nessuno le controlla il biglietto: è l’unica passeggera, e ha l’aria da straniera del nord. Ovunque abbia vissuto l’hanno sempre scambiata per una che viene da un altrove, c’è qualcosa di provvisorio nei suoi gesti, come se fosse sempre sul punto di partire, o perché dà l’impressione di aspettare un attimo di troppo prima di rispondere alle domande e la gente pensa che lei non capisca la lingua, nessuna lingua, anche se lei ne capisce e ne parla diverse. Sul ponte appoggia i gomiti al parapetto e si sporge a vedere l’acqua che si increspa appena i motori iniziano a rullare. Una volta, in braccio a suo padre, le era caduto il cappello in acqua. Un cappellino di paglia con il nastro blu comprato a Venezia. Per consolarla lui l’aveva portata sotto coperta, dove molti nel vederlo si erano alzati a stringergli la mano, aveva detto qualcosa al capitano e quello aveva fatto spuntare dall’armadietto sotto i comandi un rettangolo di tessuto blu con una stella rossa cucita su un lato e gliel’aveva sistemato sulla testa. Lei aveva detto grazie, e il capitano e suo padre si erano scambiati uno sguardo significativo. La Jugoslavia Il cappello dei giovani pionieri di Jugoslavia non è sopravvissuto all’infanzia e non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati nelle occasioni di festa, se non si aveva la fortuna di entrare nelle parate nazionali e di finire sul “Vjesnik” o sul “Novi list”. Alma ricorda che portava sandali blu e una maglietta alla marinara. Per anni ha creduto che quel ricordo fosse una suggestione della fantasia, cresciuto nel deserto della memoria familiare con l’ostinazione di un’acacia nel Sahara, poi aveva smesso di pensarci. A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l’anno sull’isola. C’era un’aria da festa del cinema e coppe di champagne, l’aria sbarazzina dei Paesi non allineati. Uomini in giacca e cravatta o con il cappello bianco passeggiavano lungo i viali o sfilavano su piccole macchine decappottabili; branchi di cerbiatti brucavano l’erba del campo da golf. Alma si tuffava dagli scogli piatti e nuotava in apnea tra i pomodori di mare grossi come un pugno e i cefali, e i saraghi. Aveva il divieto di rivolgere la parola a chicchessia, e d’altra parte si chiedeva come avrebbe potuto farlo dal momento che parlavano lingue indistinguibili diverse dalla sua, solo ogni tanto riconosceva qua e là dei suoni che assomigliavano a quelli che sentiva sugli autobus di casa sua, o alla spiaggia dopo la Pineta dove scendevano al bagno gli sloveni di Contovello. I bambini A volte sull’isola c’erano anche altri bambini, il cappellino blu con la stella rossa come il suo, camicie bianche e un fazzoletto rosso attorno al collo. Suo padre le aveva spiegato che erano i giovani pionieri, e lei gli aveva detto che voleva essere una pioniera. E perché mai? Per avere la divisa come loro! In realtà detestava le volte in cui sull’isola c’erano i pionieri. Erano una banda, una tribù. Parlavano una lingua esoterica, possedevano un codice di gesti che lei ignorava: battevano palmo contro palmo, pugno contro pugno, urlavano, si tuffavano dalle scogliere a sud, le più pericolose, fischiavano con due dita in bocca. A volte la trascinavano nelle loro spedizioni alle ville e dai buchi nelle recinzioni spiavano i camerieri in divisa preparare il fuoco per la griglia mentre sui grandi tavoli di pietra i vasi aspettavano di essere riempiti dai fiori e i militari piantonavano i cancelli. Nessuno dei soldati li minacciava mai, né li scacciava quando diventavano molesti, perché il Maresciallo adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni, finanziava i giochi atletici a cui presenziava con la moglie e i funzionari che negli anni sopravvivevano alle epurazioni. Il padre Ad Alma capitava di imbattersi in suo padre che passeggiava lungo i viali dell’isola in compagnia di donne con collane di perle e uomini che fumavano, le strizzava l’occhio a dire che non era il momento per ricordare a tutti che era un padre. Passandogli accanto lo sentiva parlare ogni volta lingue diverse, le parole uscivano agili dalla sua bocca, accavallate le une sulle altre così che diventava difficile per chiunque attribuirgli un accento, capire da dove veniva o, meglio ancora, da che parte stava. (Dov’era nato? Chi erano i suoi genitori? E il nome che portava?) Non sapevano, quelle donne e quegli uomini eleganti, che suo padre era uno zingaro capace di imbastire storie che stordivano e di cantare ninne nanne che mettevano paura – andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna. L’infanzia di Alma, che durò più o meno fino al trasferimento nella casa sul Carso, era stata un alternarsi di attese e pomeriggi carichi di tensione in cui sua madre rientrava con vaschette di alluminio colme di ćevapčići arrostiti e ajvar, kipferl e biete cucinate con le patate, la cena per il ritorno di suo padre che finivano per sbocconcellare da sole. E se da adulta Alma ha sviluppato una certa irritazione per il rumore di tacchi femminili che avanzano sul parquet, è perché in quei giorni di vana speranza sua madre indossava il vestito di raso verde che le lasciava le ginocchia e le spalle scoperte e i tacchi che risuonavano tormentosamente dalla cucina alla finestra del salotto, per ore, fino a quando non si arrendevano al buio e venivano lanciati nello sgabuzzino lasciando nell’aria uno strascico di trepidazione e dolore. Il testo è un estratto da Alma (Feltrinelli, 2024) © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFederica Manzon

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