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Caldo, i consigli per restare freschi in queste giornate roventi: dal peperoncino al gelato, ecco cosa fare (e cosa non mangiare)Vaadhoo,investimenti Maldive. Mosquito Bay, Porto Rico. Tsarabanjina, Madagascar. Laguna Luminous, Giamaica. Sono tutte spiagge in cui di notte, se si è fortunati, si può assistere alla bioluminescenza marina, ossia la capacità di alcuni organismi (non solo marini, per la verità: pensate alle lucciole) di emettere luce visibile, che improvvisamente “accende” il mare e lo impreziosisce di un caleidoscopio di riflessi blu e argento. Uno spettacolo straordinario, paragonato da chi vi ha assistito a una nuotata tra le stelle: il merito va tutto alla chimica, e in particolare al fenomeno dell’ossidazione di alcune molecole che innesca l’emissione di luce. La comunità scientifica se ne è occupata estensivamente, e oltre a dettagliarne le caratteristiche è riuscita anche, di recente, a svelarne l’origine e le ragioni evoluzionistiche: stando ai risultati di uno studio pubblicato nell’aprile scorso sui Proceedings of the Royal Society B, il fenomeno – che oggi interessa centinaia di specie – sarebbe comparso per la prima volta addirittura 540 milioni di anni fa e avrebbe subito oltre cento processi evolutivi nel corso dei millenni.Cos’è la bioluminescenza marinaCome accennavamo, in generale per bioluminescenza si intende il fenomeno per cui alcuni organismi viventi emettono luce mediante reazioni che trasformano l’energia chimica in energia luminosa. È particolarmente diffusa nei vertebrati e negli invertebrati marini, ma anche in alcune specie di funghi, in alcune specie di batteri (detti, per l’appunto, batteri bioluminescenti) e in artropodi terrestri (tra cui le lucciole). Il meccanismo coinvolge una classe di molecole, le luciferine, e un enzima, la luciferasi: quest’ultimo ha la proprietà di catalizzare, cioè innescare o velocizzare, l’ossidazione della luciferina. Sostanzialmente, la luciferina, per azione della luciferasi (e di altri fattori), si combina con l’ossigeno, formando ossiluciferina ed emettendo luce visibile. Il fenomeno (ma non la sua spiegazione in termini chimici) era noto già nell’antichità: sia Aristotele che Plinio il Vecchio, per esempio, appuntarono di aver osservato una luce inspiegabile emessa dal legno umido; molti secoli dopo, il chimico Robert Boyle – passato alla storia per l’enunciazione della legge che regola il comportamento di un gas perfetto – dimostrò che nel processo era coinvolto l’ossigeno, ma solo alla fine del diciannovesimo secolo si arrivò a identificare in modo soddisfacente tutti i responsabili del fenomeno.Gli ottocoralli del CambrianoOltre a comprendere come si verifica la bioluminescenza, naturalmente, è altrettanto importante determinarne il perché. Il tema, come spesso avviene, chiama in causa diversi meccanismi legati a possibili vantaggi evolutivi: le (tante) specie in grado di emettere luce lo fanno, per esempio, per attirare le femmine durante la fase del corteggiamento (è il caso delle lucciole), o per “confondere” i predatori, o per mimetizzarsi nella luce circostante, o ancora, nel caso dei funghi, per attrarre altri piccoli organismi che possano contribuire alla dispersione delle spore. “La bioluminescenza – ha spiegato al New York Times Danielle DeLeo, co-autrice dello studio sopra citato e biologa alla Florida International University e allo Smithsonian Museum of Natural History – conferisce alle specie un qualche tipo di vantaggio in termini di sopravvivenza o benessere. Ed è molto più diffusa di quel che si pensi: oltre dieci anni fa, quando stavo studiando l’impatto della fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon sugli abitanti delle profondità marine, mi sono immersa con un sottomarino a mille metri sotto la superficie, e la bioluminescenza era praticamente ovunque”.DeLeo e colleghi hanno cominciato a studiare sistematicamente la bioluminescenza dal 2022, concentrandosi soprattutto sulla ricerca della prima comparsa del fenomeno nell’albero evolutivo delle specie viventi. Nello studio appena pubblicato, gli scienziati raccontano di aver studiato in particolare una classe di coralli, chiamati ottocoralli, che comprende oltre 3mila specie quasi tutte bioluminescenti: utilizzando diversi modelli statistici, hanno cercato di riavvolgere la storia evolutiva di alcune di queste specie, per centinaia di milioni di anni, e determinare la probabilità di bioluminescenza per tutti i loro antenati comuni. L’analisi li ha portati a concludere che la bioluminescenza è apparsa per la prima volta nell’antenato comune degli ottocoralli circa 540 milioni di anni fa, intorno all’inizio dell’era Cambriana, retrodatando così di oltre 273 milioni di anni il primato precedente. Quel che è più interessante è che, stando a questa stima, la bioluminescenza sarebbe comparsa più o meno in contemporanea alla cosiddetta “esplosione del Cambriano”, il momento in cui sul nostro pianeta comparve “all’improvviso” un numero enorme di specie animali complesse – il che potrebbe supportare l’ipotesi che la funzione primaria del meccanismo fosse quella di tenere lontani i predatori. A meno che la sua origine non sia ancora più remota: “C’è ancora molto da studiare – conclude DeLeo – prima di comprendere con esattezza perché si è evoluta per la prima volta la capacità di produrre la luce. Sebbene i nostri risultati collochino le sue origini in un momento molto antico dell’evoluzione, c’è ancora la possibilità che studi futuri scoprano che la bioluminescenza è comparsa ancora prima”.
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