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Di Francisca contro Pilato, si scusa ma deve imparare da AntetokounmpoVonecia Carswell/Unsplash COMMENTA E CONDIVIDI La diluizione dell’io nel noi è pura ideologia. Non esiste un noi se non come somma laboriosa e imperfetta di tanti io,VOL unità irriducibili che dipendono e si nutrono di singolarità. Noi è l’io moltiplicato di numeri diversi, a loro modo sempre primi, sempre resistenti alla aritmetica d’elezione di chi pensa al gruppo come ad uno strumento di potere, personale o pubblico, per il quale la diversità, il punto di vista e il senso critico sono veleni degni del malleus maleficarum, pro domo sua, naturalmente. Il seme della pianta di cui siamo uno dei frutti più controversi non ha un nome. O, meglio, ha tanti nomi, forse tutti i nomi, come le braccia di certe divinità induiste, simboli millenari della varietà tentacolare che non ammette vie di fuga, ricchezza incoercibile alla quale apparteniamo di diritto e senza gerarchie. Pronomi dell’essere elevati al rango di morale dello stormo dalla convenzione grammaticale, rimbalzati tra il noi e l’io, la sfida provvidenziale che contende chi deve comandare chi, chi ribellarsi, chi sottrarsi, chi rivendicare un primato che non c’è. Il noi è un solvente in cui l’io moltiplicato per infinità di vite percorse dalla vibrazione passeggera che le rende al tempo stesso profondamente libere, concrete ed effimere, dovrebbe diluirsi a favore di un collettivo che senza l’io non significa nulla se non il patto di inesistenza siglato da molti a favore dei pochi che se ne tengono tacitamente fuori perché chiamati da qualche fato propizio alla guida delle greggi. Una delle rappresentazioni più potenti del noi malato è il capolavoro di Josè Saramago, Cecità. La cecità improvvisa e inspiegabile, si può paragonarla a quella dei popoli che si sottomettono ai mostri della storia condividendone con entusiasmo il destino infame, fa di tutti gli io un noi di necessità, disinteressato alle conseguenze, occupato dall’assecondare i bisogni immanenti, del resto, come si dice a giustificazione delle peggio nefandezze, tutti tengono famiglia. Il noi di Cecità è un organismo dalle dinamiche oscure e primarie, si plasma negli eventi rivelando a tratti la natura disumana e le sue convenienze, scomponendo e ricomponendo sottogruppi deformati dalla menomazione progressiva, ancora più crudeli e disperati, individualisti e autocentrati molto più di qualunque versione dell’io. La storia è costellata dalla agiografia della purificazione che santifica il polverizzarsi dell’io nel mixer dell’ideologia di gruppo, la metafora preferita è la fusione di certi metalli che si libererebbero così di tutte le scorie destinate a rapprendersi da qualche parte come scarti di una umanità partorita per errore, un difetto di fabbrica che solo un noi taumaturgico può correggere. Il collettivo che come una castrazione auspicabile neutralizza le peculiarità di ognuno per un indefinito bene comune è il racconto di cui si sono serviti e si servono tutti coloro che aspirano a qualche forma di potere. Nelle contingenze limitate dei periodi storici, attraverso le difficoltà sociali che macellano i popoli nel loro tritacarne, il noi ha mostrato di essere uno strumento potente di semplificazione in cui ognuno si riconosce per comodo o per istinto nella visione condivisa del momento, che sia la caccia all’ebreo o la schiavitù, una convention repubblicana in Alabama o una setta religiosa. Ma nella realtà vera, la microscopica fetta di realtà dove ognuno gioca il suo destino senza poter delegare le responsabilità, l’io rimane io e il collettivo è unicamente un grande compattatore di egoismi che rimangono tali, compressi nella forma del gruppo, pronti ad esplodere prima o poi, perché all’io non si sfugge. La forza del noi è nell’io, tesoro di ciascuno, unica possibilità di esistenza, piccola monade che reclama la dignità del singolo. Il noi come fuga dal limite umano è un fraintendimento così evidente che non dovrebbe avere alcuna necessità di argomentazione, eppure l’ansia di contare perché si è in molti è potente. Personalmente non ho alcun interesse ad incontrare il noi se non attraverso quei pochi io renitenti e ostinati risparmiati dalla piallatura feroce dell’ideologia di gruppo, che non è diritto di nessuno. Quando su quella strada si frappone il noi come uno scudo dietro cui gli io si nascondono, rimanendo beninteso ciò che sono all’ombra protettiva di un ombrello impersonale che si fa carico di ogni cruccio al prezzo di ciò che si è realmente, tutto perde di senso. Protetto dal noi, l’io aderisce al patto faustiano della salvezza collettiva imparando a dissimulare una diluizione che non c’è. L’io è ostico e fastidioso, reclama il suo spazio, dice la sua, interroga, prova a dare le sue risposte, crea scompiglio, porta la sorpresa che rinnova il respiro, motiva il passo e il gesto, arricchisce di infinite frazioni di tono la nota dello strumento che ci tiene in vita per questo poco tempo, come gli infiniti slittamenti armonici del sitar, progetto di melodia in cui ogni infinitesima variazione ha il suo proprio motivo d’essere suonata. Più di uno si straccerà le vesti e griderà come un esorcismo la parola autoassolvente comunità! È fuori luogo, niente di tutto ciò va contro una idea di comunità sinceramente umana. Le comunità sono per certi versi un noi, ma se non lo costruiscono come incontro rispettoso di tutti gli io, scivolano nella negazione graduale di chi le compone, piccole barche in cerca perenne di destinazione che prima o poi salperanno verso altri noi più remunerativi.

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