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I corpi senza nome di Srebrenica: ricostruzione di un genocidioAl centro,investimenti Mena. A destra, accanto a lei, un giovane Maurizio Patriciello non ancora sacerdote COMMENTA E CONDIVIDI Bella serata di fine estate sul tema del volontariato in una città campana. Tanta gente, aria di festa, desiderio di solidarietà. Amici che si incontrano, si salutano, chiacchierano con un dolcino in mano.Rossella mi vede, mi corre incontro. Quasi stento a riconoscerla, è tanto che non ci vediamo. Mi fa dei cenni, tenta di farmi capire qualcosa di importante. Ammicca, sorride sorniona, sgrana gli occhi. Mi indica un giovanotto, alto, bello, intento a servire i fratelli e le sorelle più poveri seduti ai tavoli. Gongola. Ma, ho capito bene? Con un cenno del capo, chiedo: «È lui?». Si, è proprio lui. È Gianni. E la mente, ancora una volta, inizia a galoppare...Figlia di genitori marchigiani, era nata in Lussemburgo. Sposata, con figli, viveva a Roma. Giovanissima, fu colpita dalla Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Si chiamava Mena. «Vado qualche giorno, a Roma, dalla mia famiglia. Mi accompagni?». “»Volentieri, andiamo». Partimmo. Frate Riccardo si muoveva con passo svelto tra le strade del quartiere che lo aveva visto ragazzino, salutava vecchi amici, andava a celebrare in parrocchia. Un “pace e bene” per tutti. Una mattina: «Vado a fare visita alla mamma di un amico. È malata, vieni?». «No, grazie, non me la sento. Il mio lavoro già mi porta, ogni giorno, a contatto con la sofferenza. Preferisco fare una passeggiata. Ci rivediamo a pranzo». Trinità dei Monti. Piazza Navona. Piazza di Spagna. San Pietro. Roma è Roma. Ti affascina, ti stanca, ti sazia. I giorni di vacanza passano sempre in fretta. Bisogna far ritorna a Napoli.Tutto è pronto per la partenza. Prima di metterci in macchina, Riccardo ritorna da Mena. «Stavolta vengo con te, se vuoi». Case popolari, palazzi di mattoni. Entriamo. Minuta, serena, profumata, avvolta in uno scialle bianco, seduta in poltrona, Mena mi sorride e mi sussurra un appena percettibile “ciao”. «Buongiorno, signora» e le allungo stupidamente la mano, dimenticando che non avrebbe potuto stringerla. Corro ai ripari. Mi chino e le stampo un bacio sulla guancia pungendola con il mio barbone. «Come sei bello – mi dice, facendomi arrossire come un peperone –, che cosa posso fare per te?». «Signora cara, a me, in questo momento, occorrerebbe proprio un bel miracolo». «Bene, dimmi».Le racconto le mie ultime vicissitudini, l’incontro con Riccardo, le mie perplessità, i dubbi che mi attanagliano, il desiderio di servire il prossimo, di conoscere la volontà di Dio, il buio in cui brancolo. È l’inizio di un’amicizia – amicizia? Troppo poco, ma un termine migliore non lo conosco – che durerà fino al giorno in cui spiccherà il volo per il cielo.Vado a trovarla spesso. Parto per Roma anche solo per praticarle una fleboclisi. Ha i capillari fragilissimi, infilarvi l’ago è un’ impresa. Non che io sia più bravo dei miei colleghi infermieri, solo che, per non farle male, sono disposto ad aspettare anche mezz’ora per scovare qualche venuzza clandestina. Questioni di cuore.La parabola di fede di Mena meriterebbe di essere raccontata in un libro. L’arrivo, inaspettato, doloroso della malattia, la sconvolse. Dopo i primi anni di ribellione, durante un pellegrinaggio a Lourdes, si arrese a Dio, offrendo la sua sofferenza e tutta la sua vita per la santificazione dei sacerdoti. Mena pregava per me. Era contenta di vedermi, io la facevo ridere, le canticchiavo le canzoni napoletane antiche che tanto le piacevano.Volle venire a Napoli. Vi ritornò tante volte. Si innamorò della nostra terra, della nostra gente. Quando arrivava era una festa. Gli amici la cercavano, le chiedevano preghiere, consigli. La coccolavano. Un giorno Pina le presentò Rossella, una studentessa col volto triste. Un mare di lacrime. Era rimasta incinta, ma, assolutamente, non avrebbe potuto portare avanti la gravidanza. Il fidanzato quel figlio non lo voleva, e minacciava di lasciarla; a casa non sapevano, ma se avessero saputo sarebbe stato peggio. Piangeva, Rossella. Un dramma. Uno di quei drammi in cui la vita e la morte si affrontano all’ultimo sangue. Mena la incoraggiava. Le faceva intravedere la gioia di stringere tra le braccia quell’esserino. La rassicurava che le saremmo rimasti accanto. Niente, Rossella, terrorizzata, era decisa ad abortire. Non restava che rassegnarsi. Fu allora che Mena, inaspettatamente, sussurrò a Leonarda, la signora che l’accudiva: «Leo, alza...». Leonarda le alzò le braccia. «Adesso, lascia...». Le braccia caddero facendola afflosciare su sé stessa. Minuti interminabili. Eravamo imbarazzati. Impietriti. Leonarda, con garbo, le rialzò la testa. Ci guardò. Era bellissima. I suoi occhioni brillavano. Sorrise. Poi, con una dolcezza e una fatica immense: «Non aver paura, Rossella... Fidati, il Signore non ti abbandona... Questo bimbo sarà la vostra gioia. Sai? Io, in queste condizioni, mio figlio l’ho fatto nascere...». Che cosa accadde? Non lo so. Credo che non lo sappia né lo saprà mai nessuno. Gianni nacque. Rossella e Simone, pazzi di gioia, lo accolsero come un dono. Pochi anni dopo, Mena si spense. Riposa nel nostro camposanto.La vita è un mistero immenso, guai a volerla banalizzare. Come un fiume in piena ti porta, ti trasporta, ti trascina, e tu non sempre, non subito, puoi sapere dove andrai ad approdare. Non sempre troverai la risposta ai tuoi martellanti perché. Insisti. Non ti arrendere. Rialzati. Non cedere. Resisti. Ricomincia. Risorgi. Che pace, però, quando, giunto a sera, stanco e impolverato, magari ferito e malandato, davanti al Mistero che ti avvolge e ti sconvolge, puoi chinare il capo e dire “grazie”. A Dio, innanzitutto. E poi ai fratelli e alle sorelle che ha messo e continua a mettere sul tuo cammino.
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