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Nessuna inchiesta penale per la morte di Claudio MandiaQuesto è il numero 131 di Areale,àèinvestimenti la newsletter sull’ambiente e il clima a cura di Ferdinando Cotugno. Questa settimana parliamo di chiodo d’oro dell’Antropocene, di cosa significa l’ultimo voto europeo sulla legge per la natura, della decisione sul deep sea mining in arrivo, del rapporto carnivori in Trentino Crawford Lake, un lago tra Toronto e Hamilton, in Canada, potrebbe essere il «codice a barre della nostra civiltà», il chiodo d'oro dove misuriamo l'inizio della grande accelerazione, anno zero dell'Antropocene, il momento in cui negli anni '50 abbiamo cambiato ruolo, da presenza biologica a forza geologica. La scienza conosce, e misura, questo impatto. L'ondata di calore e i temporali in cui siamo a bagno ce ne restituiscono la consistenza pratica. Ogni era geologica però ha bisogno di un punto esatto in cui si veda il passaggio, quello che in geologia si chiama golden spike, chiodo d'oro, più tecnicamente: Global Boundary Stratotype Section and Point, GSSP. Una commissione scientifica è al lavoro da tempo per trovare l'incipit dell'Antropocene, quel punto in cui si veda con esattezza come e quando la Terra è cambiata. Lo ha probabilmente individuato in questo lago dell'Ontario. Nei mesi caldi d'estate le alghe di Crawford Lake producono cristalli di calcite che precipitano sul fondo del lago formando uno strato bianco, d'inverno le alghe diventano nere e anche lo strato sul fondale cambia colore. In quest'alternanza, stagione dopo stagione, possiamo specchiare quello che siamo diventati: test nucleari, CO2 in atmosfera, inquinamento dell'aria, la colonizzazione di alluminio, cemento e plastica. La decisione definitiva su Crawford Lake come chiodo d'oro da parte della commissione, l'Anthropocene Working Group, arriverà a fine anno. Quello però è il passato, la fotografia in differita di quello che abbiamo fatto, generazione dopo generazione. Poi c'è il futuro, e di quello ci occupiamo noi, ultime o penultime generazioni a poter dire qualcosa, questo è il numero 131 di Areale, buongiorno. L'ecologia europea come fortino da difendere VWPics via AP Images Giovedì 12 luglio è stata una giornata speciale, da leggere nel mondo giusto. Quando il parlamento europeo ha votato a favore della legge sul ripristino della natura, salvandola dal naufragio verso il quale sembrava essere destinata, l'aula è esplosa in un applauso, «come quando un ostaggio viene liberato», ha scritto Francesca De Benedetti. L'ostaggio era la componente biodiversità del Green Deal, che non è solo transizione energetica, emissioni e rinnovabili, è anche la creazione di un modello di civiltà che sappia tenere insieme sviluppo, prosperità e fragilità della natura. Non è un compito facile, l'Unione Europea si è dimostrata un'istituzione imperfetta, proprio come è imperfetta la legge che ora mandiamo al trilogo per l'approvazione finale, ma è anche la miglior istituzione imperfetta che abbiamo a disposizione. Questa storia ha un significato politico e un significato ecologico. Quello politico è che le destre (quella liberale, quella conservatrice, quella populista) hanno da tempo individuato il Green Deal come il fortino da assaltare, l'assedio sul quale temprare e rifinire i reciproci punti di contatto, i compromessi per stare insieme, la loro saldatura culturale. La campagna per la legge sul ripristino della natura è stata l'antipasto di cosa sarà l'ecologia nella campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo anno: il principale terreno di scontro. Il clima occuperà il ruolo di trincea ideologica che ha avuto l'immigrazione nel ciclo politico precedente. Ma giovedì 12 luglio il fortino ha retto all'assedio. Poi parleremo del prezzo che abbiamo dovuto pagare per reggere questo assedio, un prezzo che non è basso, ma il fortino è in piedi e questo non era scontato. Immagina il metaverso in cui le destre vincono, il 12 luglio, e la legge sulla biodiversità sparisce, immagina in quale Europa e in quale futuro ci troveremmo in quella tempolinea alternativa. La propaganda anti-ambientalista avrebbe vinto, le destre avrebbero potuto scalare la marcia verso bersagli ancora più grandi. Invece questa è una vittoria, e le vittorie vanno comprese, problematizzate, ma anche custodite e celebrate. Non esistono vittorie perfette. L'alleanza di scienza, società civile, organizzazioni non governative e partiti ha retto, è un modello in cui ognuno rimane con le sue idee, le sue prerogative, le sue delusioni, ma questo voto è stato un esercizio di costruzione di futuro. Il significato ecologico sono i compromessi, il prezzo da pagare per questa difesa del risultato generale. Prezzo: alto. Sono stati ridimensionati gli obiettivi di ripristino dell'ambiente marino, delle torbiere e delle foreste, è stato cancellato l’articolo che avrebbe ripristinato la biodiversità nei terreni agricoli, rinunciando a un elemento essenziale per aumentare la capacità dell'Europa di assorbire il carbonio. L'agricoltura e gli allevamenti intensivi hanno confermato il loro status di eccezione ecologica e politica in Europa, di cui sono un blocco compatto e in apparenza inscalfibile, «i tassisti d'Europa», ha scritto David Carretta su Twitter. Sono state cancellate le azioni a tutela degli impollinatori, un pezzo importante di azione per la sicurezza alimentare che perdiamo, sono stati bocciati gli emendamenti sugli oceani, per la creazione di aree marine protette e l'esclusione delle navi industriali di oltre 25 metri dalle acque costiere. Ma l'impianto della legge è salvo. E questa era la cosa più importante. Il mese decisivo per il deep sea mining AP Nel quartier generale di un'organizzazione internazionale poco nota, la International Seabed Authority (ISA) con sede a Kingston, Giamaica, in questi giorni si decide il futuro dei fondali oceanici. L'ISA è un organismo internazionale sotto l'ombrello delle Nazioni unite e ha il compito di decidere se dare il via libera, o frenare, l'esplorazione e l'estrazione mineraria sul fondo degli oceani. Su questa decisione ci sono in gioco non solo la possibilità di tirare su quei miliardi di noduli polimetallici che contengono nickel, manganese, cobalto, rame, litio, terre rare, ma due idee opposte di transizione energetica e in ultima analisi di civiltà, di rapporto tra gli esseri umani e gli ecosistemi, in particolare quelli meno noti e più vulnerabili. In questo momento sono quattordici i paesi in fase di ricerca e di esplorazione dei fondali alla ricerca di opportunità minerarie, in attesa di capire se ci sarà un via libera internazionale. Tra questi: Cina, Russia, Corea del Sud, Giappone e Nauru, il piccolo arcipelago del Pacifico prossimo alla zona con più potenziale estrattivo, un immenso tratto di fondale del Pacifico chiamato Clarion-Clipperton Zone. È stata proprio Nauru a far scattare la clausola che impone, entro due anni, una decisione da parte dell'International Seabed Authority. La deadline è arrivata, l'ISA deciderà. Sull'altro fronte, quello che vorrebbe bloccare le miniere sottomarine, ci sono la società civile, la comunità scientifica e sempre più paesi che stanno sostenendo la necessità di una moratoria sulle miniere nell'oceano. Le ultime aggiunte sono il Canada - ed è importante, perché la startup mineraria con le tecnologie più avanzate per il deep sea mining è canadese, The Metals Company - e la Global Tuna Alliance, che rappresenta un terzo di tutto il tonno consumato nel mondo e che ha aderito dopo l'uscita di una ricerca che mostra le sovrapposizioni geografiche tra la pesca e le possibili estrazioni minerarie. Una forma di eterogenesi dei fini. Il tema è cruciale, ed è ancora poco discusso sul piano pubblico, in Italia non c'è un vero dibattito e il nostro paese non ha ancora preso una posizione. In un altro ecosistema delicato e pieno di potenziale come l'Antartide le estrazioni sono state vietate da una moratoria e «fu solo merito della pressione pubblica che si creò tra il 1983 e il 1990», ha scritto su Twitter James Barnes, fondatore dell'Antarctic and Southern Ocean Coalition (ASOC). Sullo sfondo di questa battaglia, che sta diventando sempre più geopolitica, c'è la fame di metalli critici che dovranno alimentare la decarbonizzazione e l'elettrificazione del mondo. Dopo aver a lungo lanciato l'allarme sulle loro carenze, un nuovo rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia ha però affermato che le catene del valore di questi metalli si stanno avvicinando ai livelli necessari per rispettare gli impegni climatici al 2030, grazie a un aumento degli investimenti del 30 per cento nel 2022. Prendendo come esempio il litio, la previsioni di offerta sono di 420mila tonnellate l’anno al 2030, dove la quota necessaria per rispettare gli impegni sarebbe di 443mila tonnellate. Praticamente: ci siamo. Ma se il problema dell'approvvigionamento si sta riducendo grazie alle miniere terrestri, perché minacciare il fondale oceanico? In un paper pubblicato nel 2017 da Fincantieri si legge: «Un parallelo tra le catene del valore del deep sea mining e dell'industria oil & gas mostra una sostanziale sovrapposizione, sia nella fase dell'esplorazione che in quella della produzione. Questo suggerisce che esistono opportunità di business per le aziende italiane che lavorano nell'oil&gas di fornire prodotti e servizi anche in questa nuova industria». Le opportunità di business sono immense, la Clarion-Clipperton Zone contiene più metalli del resto del mondo messo insieme, il triplo delle riserve di nickel note, il quadruplo di quelle di manganese, il sestuplo di quelle di cobalto (e dodici volte di più di tutto quello che viene estratto in Repubblica Democratica del Congo, la complicata Arabia Saudita del cobalto). Sta prendendo sempre più piede il parallelo tra deep sea mining e la rivoluzione dello shale gas negli Stati Uniti, che ha affrancato il paese da una serie di dipendenze geopolitiche, a costo però di irreparabili danni ecologici. Planet Tracker ha pubblicato uno studio sui costi ecologici e finanziari dell'apertura di queste miniere oceaniche. Un'estrazione sottomarina comporta un investimento di 2,7 milioni di dollari per chilometro quadrato. Ma ripristinare quell'ecosistema dopo la fine dell'estrazione costerebbe tra 5,3 e 5,7 milioni di dollari per chilometro quadrato. Lo studio, intitolato The Sky High Cost of Deep Sea Mining, è basato sulle previsioni della stessa The Metals Company. Portare in superficie noduli polimetallici da un'area di 1000 chilometri quadrati nel 2030 garantirebbe entrate per 4,37 miliardi di dollari, con un margine di profitto del 38 per cento. Il problema è che inserire il costo del ripristino degli ecosistemi comporterebbe una perdita dell'83 per cento. Chi li pagherebbe? È per questo che in gioco sul deep sea mining ci sono due modelli di sviluppo: uno che esternalizza al futuro e alla Terra i costi ecologici e un altro che include questi costi nelle valutazioni.  Lo stato dei carnivori in Trentino Associated Press/LaPresse Ci sono state settimane, quest'anno, in cui il Trentino è stato l'epicentro dei conflitti tra esseri umani e fauna in Italia, dopo la terribile storia di un runner ucciso da un orso. Poi la polvere si è posata, il dibattito si è spostato altrove e il metabolismo politico è entrato in un altro ciclo. Per questo è importante parlare del nuovo Rapporto grandi carnivori, diffuso dalla Provincia autonoma di Trento, sullo stato delle popolazione di orsi, lupi, sciacalli dorati e linci. C'è un dato che balza all'occhio, i danni provocati dalle interazioni tra attività umane e carnivori in Trentino sono nettamente diminuiti anno su anno. Lo sappiamo dagli indennizzi erogati dalla provincia. Nel 2021 erano stati 337mila euro per 463 eventi, nel 2022 sono stati 145mila euro per 224 eventi. È il segno che da un lato c'è l’aggressività del dibattito politico alimentato dall'amministrazione della provincia, che ha politicizzato una tragedia umana ed ecologica come la morte di Andrea Papi, dall'altro c'è una convivenza che può trovare una sua strada, un suo modo. Per esempio, nel 2022 sono state avviate una nuova distribuzione di cassonetti anti-orso in Val di Sole e la revisione del piano provinciale per la gestione dei rifiuti, con la previsione di dotare tutto il Trentino di sistemi di raccolta della quota organica che tengano conto delle interazioni con la fauna selvatica. Il Rapporto grandi carnivori è realizzato con il coordinamento del Servizio faunistico della Provincia, in collaborazione con la Fondazione Edmund Mach, Ispra, Parco naturale Adamello Brenta, Muse, Associazione cacciatori trentini (Act). Sugli orsi, i dati confermano la stanzialità delle femmine, che occupano 1700 km quadrati nel Trentino occidentale, e l'irrequietezza dei maschi, che hanno percorso nel 2022 41mila chilometri quadrati, anche oltre i confini del Trentino, per poi tornarci ad accoppiarsi. In Trentino è stata anche confermata la presenza di 29 branchi di lupi, con tre nuove coppie rispetto allo scorso anno, e la morte di quattordici esemplari, quasi sempre a causa di incidenti stradali e ferroviari. In Trentino ci sono sicuramente anche una lince, il maschio B132 emigrato dalla Svizzera, e due nuclei di sciacalli dorati, uno in Val di Fiemme e l'altro nella zona del Lomaso. Per questa settimana è tutto, se hai voglia di scrivermi, l'indirizzo a cui farlo è [email protected]. Per comunicare con Domani, invece, manda una mail a [email protected]. Buon sabato! Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno

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