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Il “metodo Giorgetti” - Il PostIn un campionato NBA che da cinque anni premia come miglior giocatore un non americano,trading a breve termine si sta imponendo la figura del centro serbo, lontano dal glamour e dal lusso, senza tatuaggi né stravaganze. Il suo soprannome Joker, nato involontariamente, esprime al meglio ciò che il suo avvento ha rappresentato per gli standard cestistici imposti a tutti. Quando ha la palla tra le mani, non si sa mai che giocata aspettarsi. È capitato a tanti, a tantissimi. Ritrovarsi su un campetto, con tanti sconosciuti, a cercare un accordo per giocare insieme. Finendo così per scegliere i due capitani e affidare a loro l’onere di dividere i partecipanti e comporre le squadre, più equilibrate possibili. Senza troppe informazioni, si sceglie seguendo l’istinto, quell’istinto che molte volte suggerisce la stessa cosa: accaparrarsi i ragazzi che sembrano più performanti rispetto al fisico, a quanto sono alti, a quanto sono filiformi, a quanto lunghe hanno le leve, somigliando il più possibile al prototipo di cestista ideale. Sperando che quell’avversario tanto mastodontico ma dalle movenze che sembrano così macchinose anche nei gesti più normali, con quei chili in più impossibili da ignorare finisca agli avversari, magari più sfortunati nello scegliere per ultimi e quindi doversi accontentare di chi nessuno ha voluto.Poi si inizia a giocare, e quelle valutazioni fatte a occhio si dimostrano almeno in parte sbagliate. Soprattutto riguardo il ragazzo che, insomma, con quei chili in più e quelle movenze così strane, è davvero insospettabile. E invece è il migliore di tutti: conosce meglio degli altri i limiti del suo corpo e li ha trasformati in punti di forza, visto che rubargli la palla è impossibile e in ogni situazione anticipa ciò che accadrà sul campo, puntualmente trovando l’uomo libero o tirando nel modo a lui più conveniente. A patto di andare alla sua velocità: ma con la sua sapienza cestistica di fatto costringe tutti ad adattarsi ai giri del suo motore, non quello più potente ma di certo quello che alla fine produce le performance migliori.Dai campetti di periferia, dove questa scena di tanto in tanto si presenta con le dovute proporzioni, c’è chi l’ha riprodotta sul palcoscenico cestista più importante di tutti. Partendo da una cittadina serba, senza grandi aspettative e con una silhouette ben sotto gli standard anche di leghe molto meno blasonate. Per poi prendersi gli Stati Uniti, scalare i vertici del campionato di pallacanestro più importante del mondo e scrivere pagine di storia del gioco, raggiungendo vette mai toccate prima.Restando quanto più possibile sé stesso, con un’immagine anche a livello di marketing diversa da tutti quelli che lo hanno preceduto, affiancato e poi sono stati superati al vertice delle gerarchie. Fisico quasi per niente definito. Nessun tatuaggio. Nessun taglio di capelli particolare o barba all’ultima moda. Nessun accessorio particolare. Nessuna frase a effetto. Nessuna espressione di machismo. Nessuna collezione di amanti. Nessuna presenza agli eventi più glamour. Nessun hobby figlio del lusso e dell’ostentazione di quanto guadagnato. Nessun account attivo sui social network (dove però vanta un post diventato a posteriori famosissimo: quello in cui, da sedicenne sostanzialmente sconosciuto, chiese se ci fosse qualcuno che volesse aggregarsi a lui per fare due tiri a canestro... senza alcuna risposta ricevuta).Anzi, qualche faccia buffa ogni tanto e un umorismo anticlimatico rispetto a quello fissato dai canoni del sistema preconfezionato, spesso plastico, degli eventi di punta della National Basketball Association.Umorismo che traspare in quei pochi spot televisivi girati, senza frasi motivazionali ma con evidente autoironia, presente anche in tante piccole occasioni sul parquet e fuori (dai microfoni smontati in conferenza stampa, dai balletti alle contese, dai duetti con i compagni alle espressioni comicamente esagerate regalate alle telecamere).Al massimo, rispetto alle classiche “icone” della pallacanestro americana, come similarità ha un soprannome, quello di Joker, nato anche un po’ per sbaglio: venne coniato da un compagno di squadra degli esordi a Denver, l’ottimo tiratore Mike Miller, che non riusciva a pronunciarne il cognome. Ma che involontariamente ha forse espresso al meglio ciò che il suo avvento e quello che ha fatto in campo e fuori hanno rappresentato per il mondo cestistico americano e per gli standard cestistici imposti a tutti.Quando ha la palla tra le mani sul parquet, non si sa mai che giocata aspettarsi rispetto a quanto ipotizzabile visti gli altri giocatori. Quando si è presentato in quelle occasioni tanto standardizzate fuori dal campo, non si è mai saputo come avrebbe reagito rispetto a quanto “dovuto”.Un Joker, di nome e di fatto, con quella faccia un po’ così, quel corpo un po’ cosà, ma quella pallacanestro celestiale giocata, ben più aulica di quella mai mostrata da chiunque altro.Semplicemente, Nikola Jokić.(Tratto da Nicola Jokić – The Joker di Marco A. Munno, DFG Lab, 2024) © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediMarco A. Munno

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