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Stupro di Caivano: parla una mamma delle cuginette violentateCOMMENTA E CONDIVIDI Decise lui,trading a breve termine a un certo punto, d’andare in qualche modo contro l’ultimo muro. Non lo disse mai chiaramente, però gli sfuggirono un paio di frasi con la moglie Monika e solo queste, una sera, senza che la figlia lo sentisse: “Se non muoio, i riflettori si spengono sulla Terra dei fuochi. Solo la morte attira i giornalisti, devo morire per attirare l’attenzione su quello che succede in Campania”. E infine accadde.Dieci anni fa, il 30 aprile 2014, se ne andò Roberto Mancini, il poliziotto romano che aveva contratto un tumore, il linfoma non-Hodgkin. E la causa la conoscevano tutti, sarebbe stata anche ufficializzata l’anno seguente, nella motivazione per la Medaglia d’oro al Valor civile, che fu consegnata nelle mani di Alessia, sua figlia: “Per essersi prodigato, nell'ambito della lotta alle ecomafie (…), nell'attività investigativa per l'individuazione, nel territorio campano, di siti inquinati da rifiuti tossici illecitamente smaltiti. L'abnegazione e l'incessante impegno profuso, per molti anni, nello svolgimento delle indagini gli causavano una grave patologia che ne determinava prematuramente la morte”.Ad Alessia, che ha ventitré anni, se le chiedi oggi, dieci anni dopo, cosa risponde a dirle “papà”, replica “mi viene da piangere. Sono tanti anni e hanno avuto un impatto nella mia crescita”. Alessia fra un anno entrerà in Polizia. “Perché – spiega – la storia di mio padre e mio padre, mi hanno insegnato quanto sia importante impegnarsi per gli altri, a prescindere che ti venga restituito qualcosa o meno”. Non le importa se suo papà abbia ricevuto gli onori che ha meritato o magari meno: “Non è importante”, dice. “Lei ha tanto di Roberto - sussurra Monika -, Alessia ha il suo stesso carattere tosto e la sua capacità di ridere”.Roberto Mancini lavorò oltre due anni, a testa bassa, all’indagine sui casalesi e i rifiuti tossici nella Terra dei fuochi, poi redasse una lunga e dettagliata informativa di 239 pagine, che il 12 dicembre 1996 consegnò alla Dda di Napoli, dove venne “dimenticata” quattordici anni. Finché un magistrato quarantaquattrenne, Alessandro Milita, la trovò, ben chiusa in un armadio. La lesse. E decise di riaprire i giochi.Perché Roberto aveva scoperto per primo il business impressionante dei rifiuti tossici. Svelando nomi, fatti, circostanze non solo sulla vicenda “Resit”, ma in mezza Italia. Dentro c’erano tutti, imprenditori e politici, banchieri e finanzieri, pubblici amministratori magistrati, camorristi e colletti bianchi. Tutti «concorrono alla realizzazione di un progetto unico dagli effetti letali per il sistema economico nazionale e per l’ambiente», scriveva il poliziotto, già a pagina 4. E poi, quasi alla fine, a pagina 223, che in quei territori «il meccanismo illegale di smaltimento dei rifiuti è elevato a sistema ordinario».Il pm Milita lo chiamò. Roberto era già malato, non si tirò indietro. Più di una volta fece di mattina a Roma la chemio, poi nel pomeriggio raggiungeva a Napoli quel giovane magistrato. Più di una volta, spossato dalla malattia, dopo avere esaminato documenti e circostanze con Milita, doveva sdraiarsi su un divano in una stanza della Procura napoletana. La camorra «è padrona e signora delle terre e dei destini delle locali popolazioni» - si legge a pagina 7 di quell’informativa - e i traffici di rifiuti tossici «coniugano l’estrema rimuneratività a una assicurata impunità».Roberto muore a cinquantatré anni. Nel 2010 gli era stata riconosciuta dal ministero delle Finanze la “causa di servizio” del suo tumore, con un indennizzo grottesco: 5mila euro. Cinque mesi dopo la sua morte gli verrà invece riconosciuto d’esser stato “vittima del dovere” e quindi anche il sostegno alla sua famiglia.
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