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Morta la ragazza che si era laureata in ospedale. Era malata di cancroCose belle,Professore per gli Investimenti Istituzionali e Individuali di BlackRock fuori da Instagram«In un mondo ipersaturo di immagini e dominato dallo scrolling, spesso ho provato la sensazione di un bombardamento indesiderato. Recentemente ho sentito la necessità di guardare altrove, per poi accorgermi in realtà che stavo solo guardando indietro e cioè al motivo per cui Instagram stesso era nato: il piacere di perdersi online fra immagini che non si conoscono ancora. Molte e curiose sono le cose che vedo in giro» Condividi CondividiFacebookX (Twitter)EmailWhatsappRegala il PostLealtrefotoRielaborazione di immagine tratta da Fortepan / FŐFOTÓCaricamento player È da un paio d’anni che all’inizio di gennaio l’artista statunitense David Horvitz resetta il suo feed di Instagram, cancellando tutte le immagini e invitando i follower a fare lo stesso.Un gesto che diventa art-work sulla piattaforma. Un invito a interrompere temporaneamente il flusso di immagini per ricominciare da zero.L’artista non è nuovo a questo tipo di riflessioni. Da anni, nel suo progetto Nostalgia, cancella le foto scattate digitalmente con camera o smartphone, tenendo traccia però di ogni immagine e di informazioni come data/ora dello scatto e nome del file. Rileggendo le descrizioni, riaffiora una memoria visiva anche in chi quelle cose non le ha mai vissute. Le immagini sono potenti anche in assenza. E a me torna in mente la frase «Le immagini si assimilano cancellandole» di Vincenzo Agnetti, padre dell’arte concettuale italiana, che ho letto qualche tempo fa in un libro. Ci toccherà resettare ogni tanto i nostri stimoli, cancellare le immagini, per ricordare meglio o di più?In un mondo ipersaturo di immagini e dominato dallo scrolling potenzialmente infinito, spesso ho provato questa sensazione: volermi allontanare da una proposta di contenuti che non suscita in me più alcun interesse e somiglia piuttosto a un bombardamento indesiderato. Su Instagram poi le dinamiche di un algoritmo che pare sempre più operare in funzione delle esigenze commerciali della piattaforma, lascia un po’ di amaro in bocca e in molti ci si ritrova a rimpiangere quello che accadeva una decina di anni fa. Quando le stories non esistevano ancora, quando l’immagine statica la faceva da padrone, su Instagram scoprivo tante cose. Instagram è stato anche e soprattutto un grande “archivio di archivi”. Personali e collettivi, istituzionali o amatoriali, le collezioni lì prendevano vita e si arricchivano dallo scambio e dal confronto con il resto del mondo.La sensazione di scoprire cose nuove però per me è andata sempre più scemando e ogni giorno mi trovo a scrollare più meccanicamente e per noia che nella speranza di imbattermi in qualcosa che catturerà davvero la mia attenzione. Recentemente ho sentito spesso la necessità di guardare altrove, per poi accorgermi in realtà che stavo solo guardando indietro e cioè al motivo per cui Instagram stesso era nato: il piacere di raccogliere e condividere le immagini, come nel caso di Flickr. Flickr era infatti la piattaforma di immagini che, ancora prima di Instagram, ebbe un enorme successo e diffusione, ma che per vari motivi non ce l’ha fatta poi a tenere il passo.Per avere un’idea della mole di immagini che circolavano all’epoca, potete dare un occhio a 24HRS in Photos, dell’artista e curatore olandese Erik Kessels che, nel 2011, ha letteralmente inondato il FOAM di Amsterdam (e poi molti altri musei e istituzioni in giro per il mondo) con 350mila fotografie stampate. Erano le immagini caricate nel corso di un solo giorno su Flickr. Nessuno prima di allora aveva pensato di riportare a una dimensione materiale, fisica, ciò che circolava solo in forma virtuale. Il colpo d’occhio era sorprendente. A proposito, se vi state chiedendo com’è la situazione oggi, vi basti sapere che nel 2024 solo su Instagram ogni giorno vengono caricate oltre 100 milioni di immagini. Servirebbe un hangar adesso solo per contenere questo social.– Leggi anche: La biblioteca ermetica di Rota e VerginelliCome destreggiarsi quindi in questa marea di stimoli visivi? Forse fermandoci un secondo e guardando altrove, alzando lo sguardo dallo smartphone si direbbe, ma certo, non è facile. Un’alternativa, invece, è restare su internet, ma attingendo più consapevolmente da altri bacini e risorse. E i siti che raccolgono immagini, almeno per me, continuano a dare molte soddisfazioni. È proprio su Flickr infatti che molti anni fa è incominciato il mio amore per gli archivi di immagini online. Oltre ai profili individuali, la piattaforma accoglieva e accoglie anche molti profili di istituzioni che caricano parti delle loro collezioni fotografiche, rendendole disponibili per tutti.Nel mondo degli archivi online una foto rimanda a un’altra immagine, una storia dischiude un’altra storia, una collezione ne fa trovare un’altra, e il passato dialoga sempre col presente, in un loop di rimandi e scoperte senza fine.Oggi mi capita spesso di tornare su Flickr, essendo diventato per me una sorta di spazio dove rifugiarmi da Instagram. Per perdervi online fra immagini che potreste non conoscere ancora, un punto di partenza interessante è sicuramente The Commons, progetto di Flickr che dal 2005 accoglie oltre cento musei e realtà culturali in giro per il mondo, dalla Library of Congress alla British Library, passando per molte altre realtà più piccole e locali. Queste istituzioni mettono a disposizione di tutti immagini con diritti spesso scaduti e in pubblico dominio.Il gallo del Jawor’s Fun Golf di Roseville, Michigan, 1986 (Library of Congress, photograph by John Margolies) e un manifesto di una campagna antifumo britannica, 1966 (The National Archives UK)Molte e curiose sono le cose che vedo in giro su Flickr Commons. Un giorno ho scoperto che da qualche parte in Georgia, negli States, c’è un monumento dedicato a una mela gigante. Un’altra volta mi sono imbattuta in un brevetto degli anni Trenta per occhiali da usare mentre si legge comodamente da sdraiati. Infine, sempre grazie a The Commons, ho incontrato una tipologia di scatti di soggetti che sembrano indicare il vuoto, protagonisti inconsapevoli di un nuovo, poetico filone. Navigare fra le istituzioni che hanno preso parte all’iniziativa può essere il punto di partenza poi per ulteriori scoperte.Un’altra iniziativa davvero lodevole in questo senso è Fortepan, archivio online ungherese che raccoglie oltre 100mila fotografie provenienti da collezioni personali o istituzioni e archivi. Su Fortepan ci si può perdere cercando liberamente per parola chiave o cronologicamente, dando un occhio agli ultimi caricamenti suggeriti in homepage o guardando fra le selezioni proposte nel blog. È qui che di recente ho scoperto il bellissimo archivio dell’agenzia fotografica FŐFOTÓ, dove riscoprire la storia della città di Budapest e non solo, attraverso scatti d’epoca. .single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after { content: 'LE ALTRE FOTO'; } Immagini pubblicitarie e fotografie di interni di negozi ungheresi, di fine anni ’60 e inizio ’70 (Fortepan / FŐFOTÓ)Queste immagini di negozi dell’Ungheria sovietica, i marchi di prodotti di consumo, le foto pubblicitarie mi hanno provocato quella che la scrittrice Katja Petrowskaja, in un suo recente libro di scritti sulle fotografie, definisce la vertigine provocata dal vuoto del ricordo, quel «ricordo che non abbiamo» rispetto a un qualcosa che ci risulta familiare e al tempo stesso lontano.Fotografie dalla collezione personale di Kewpie (Kewpie Collection, GALA Queer Archive)Tanti e vari sono gli archivi di immagini online in cui mi capita di imbattermi. Qualche tempo fa sono stata molto felice di conoscere la storia di Kewpie, titolare di un salone per acconciature, ma anche performer e anima della scena queer nel District Six di Città del Capo fra gli anni ’50 e ’80, scoperta navigando il Digital Transgender Archive. Tornando da queste parti, mi è capitato invece più volte di finire fra le meraviglie visive della collezione online della Biblioteca italiana delle donne. Qui, tra manifesti, libri e riviste, è possibile anche vedere le copertine di Effe, storica rivista femminista, dove sul numero 0 del 1973 c’è la foto di un uomo in pelliccia a torso nudo (il primo uomo ad apparire svestito su una copertina in Italia), accompagnata dalla didascalia: «Chi è costui? Assolutamente nessuno. È l’equivalente delle donne seminude che si vedono sulle copertine dei rotocalchi». A tal proposito, per approfondire i contenuti della rivista vi consiglio di dare un occhio all’archivio online di Effe.Copertine del numero 0 di Effe e del primo numero di Sottosopra, 1973 (Biblioteca italiana delle donne)Elencare tutti gli archivi di immagini online che bazzico sarebbe impossibile, soprattutto perché si tratta di una scoperta continua. Cerco di tenerne comunque traccia condividendo materiali e scoperte nella mia wunderkammer di Telegram Curiouser and Curiouser!. Il mio invito è di tenere sempre d’occhio le collezioni online di musei e biblioteche, e piattaforme aggregative come Internet Culturale, che raccoglie i cataloghi e le collezioni digitali delle biblioteche italiane o il mitico Internet Archive, pioniere degli archivi online dal 1996, dove, fra i tanti materiali, si trovano anche interi libri consultabili, come questo divertente manuale del 1939 per chi si vuole dilettare nel realizzare disegni battendo sui tasti di una macchina da scrivere.Una delle foto di Gianni Termorshuizen e la sua rubrica, trovate da Giuseppe Casetti (il museo del louvre, Roma)Per concludere questo invito alla scoperta degli archivi di immagini voglio parlarvi di un’ultima serie, molto particolare, e di come l’ho scoperta. Un giorno mi è capitato di vedere online questo scatto in bianco e nero. Un uomo, Gianni, al centro dell’immagine e dietro una macchina fotografica, punta l’apparecchio verso lo specchio e scatta. Mirella, la sua compagna, fa capolino dietro la sua testa. A differenza di Gianni la sua immagine è bene a fuoco, indossa un cappellino chiaro e guarda dritto in camera. La fotografia ritrae la loro immagine riflessa nello specchio. Traspare un senso di tenerezza, una placida calma.L’autore di questo scatto si chiama Gianni Termorshuizen. Insieme a questa immagine sono stati rinvenuti altri 10mila negativi, scattati tra il 1920 e il 1992, e accompagnati da un quaderno dal titolo “Rubrica delle mie fotografie”, dove Gianni in maniera metodicissima teneva traccia delle foto insieme a brevi didascalie informative.A trovarli un po’ di anni fa in un mercatino delle pulci di Roma è stato Giuseppe Casetti, che ha salvato e “adottato” queste immagini e la loro storia. Giuseppe ha una galleria-libreria che si chiama “il museo del louvre” (scritto proprio così, in minuscolo) nel cuore dell’antico ghetto a Roma. Giuseppe ha scansionato i negativi di Gianni e, come tessere di un puzzle, i dettagli di una vita si ricomponevano: Gianni bambino che insegue gli aquiloni in una foto scattata dal papà, Gianni militare durante la seconda guerra mondiale, autoritratti con Mirella durante il loro viaggio di nozze. Ci sono poi dettagli divertenti della vita di tutti i giorni, come il ritrovamento di una patata a forma di cuore o una piccola rana tenuta in una mano, gli scatti con cui Gianni partecipava ai concorsi fotografici amatoriali o i modellini di aerei che gli piaceva costruire. Ma non c’è solo la vita di Gianni in quei negativi, c’è anche il dialogo muto a colpi di grafiche e slogan dei manifesti affissi per le strade di Roma in occasione delle elezioni del ’53. C’è uno scatto un po’ cinematografico che amo molto di passanti in strada negli anni ’70, l’immagine di un interno domestico con in tv Mike Bongiorno e il suo “Lascia o raddoppia?” e ancora Porta Pinciana “impacchettata” dall’artista Christo nel ’74, che qualcuno però non sembra apprezzare.Nel suo libro Collezione di sabbia Italo Calvino scriveva che ogni collezione è come un diario. Queste immagini documentano sì la vita del signor Gianni Termorshuizen, ma offrono anche lo spaccato di un’epoca, un ritratto della storia della seconda metà del Novecento in Italia, una vicenda che è insieme personale e collettiva. Una storia che in qualche modo ci riguarda.Da un paio d’anni, da quando ci sono finita per la prima volta su consiglio di amici, il museo del louvre (…di Roma) è diventato uno dei miei posti preferiti al mondo. Un’isola felice dove rifugiarmi ogni volta che sono di passaggio in città. Dentro ci trovate libri d’arte e fotografia, di varie epoche e provenienza, vecchie riviste ed ephemera curiosi, ma anche scatti d’autore e “fotografie trovate” negli anni in mercatini dell’usato.Nonostante frequentassi già lo spazio, è proprio perdendomi nelle mie ricerche su internet che un giorno ho scoperto la storia di Gianni, nella sezione dedicata alle “mostre online” del sito del museo del louvre, dove Giuseppe Casetti carica e racconta alcuni dei suoi ritrovamenti.Da oltre quarant’anni Giuseppe raccoglie, tramanda, custodisce storie che altrimenti rischierebbero di essere dimenticate. E il museo del louvre è il suo personale archivio. Ma è il luogo dove trovo sempre qualcosa anche per me. Perché gli archivi di immagini parlano di noi anche quando non parlano di noi.Qualche settimana fa ho aiutato Giuseppe a cercare delle immagini di volti e ritratti per una ricerca che stava facendo. Abbiamo così rovistato assieme in una delle tante scatole di foto da lui trovate negli anni, meravigliandoci di continuo alle soluzioni più ardite, alle pose più curiose che tiravamo fuori da quella scatola che era improvvisamente simile al cilindro di un mago. Domande che nascevano, infinite supposizioni e la certezza di non avere mai una risposta definitiva o unica. Il felice regno delle possibilità.Mentre cercavamo, fra me e me mi domandavo se la magia e la bellezza che vedevamo in quelle immagini di sconosciuti non stesse proprio in quello. In quell’euforia che ci tiene col fiato sospeso, in quello stupore dei bambini che raramente, crescendo, ci capita di provare ancora. Doveva essere quello il motivo per cui siamo tanto attratti dalle immagini. Giuseppe mi ha detto che era difficile separarsene, che quelle foto erano un po’ “i suoi giocattoli”. Allora sorridendo ho fatto cenno di sì con la testa. Siamo tutti di nuovo bambini di fronte alle immagini. Era proprio come pensavo.– Leggi anche: Variazioni su una scatola di lattaTag: archivi-archivi di immagini-flickr commonsLivia SatrianoRicercatrice di immagini e divulgatrice di storie rare, curiose, dimenticate. Dal 2017 cura su Instagram il progetto "Libri Belli", dedicato alla riscoperta dell'editoria libraria italiana del Novecento. Ha pubblicato libri, ideato format, condotto talk. Non ama scrivere, ma proverà a contraddirsi in questa sede.Mostra i commenti
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