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«Mai visto una guerra così». Gaza e la storia di MajedI campi davanti all'inceneritore di Acerra. Di Donna ha ricordato la grande manifestazione del 2004 in città,Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock con 40mila persone - Fotogramma COMMENTA E CONDIVIDI «Sorge il sospetto che questo territorio tra Napoli e Caserta sia condannato a morte e che ci sia una regia dietro». È durissimo il vescovo di Acerra, monsignor Antonio Di Donna, presidente della Conferenza episcopale campana. L’occasione è il seminario "Terra dei fuochi: una nuova etica anche nella comunicazione dell’emergenza ambientale" promosso dall’Ucsi e dall’Ordine dei giornalisti della Campania assieme alla Diocesi. E ancora una volta il vescovo denuncia con forza il dramma di questa terra. «Città martire che si sacrifica per tutta la Campania». Il riferimento è all’unico e enorme inceneritore della regione, attorno al quale sono poi sorti tanti altri impianti per i rifiuti, alcuni finiti sotto inchiesta. Ricorda «la grande manifestazione del 2004, con 40mila cittadini di Acerra col loro vescovo Rinaldi. Manifestavano pacificamente ma vennero manganellati. E l’inceneritore fu imposto manu militari da Bassolino e Berlusconi che fecero come Pilato e Erode, nemici ma insieme condannarono Gesù». Ma non è finita. Così Di Donna denuncia come pochi giorni fa la Regione ha accolto la richiesta di un nuovo impianto di trattamento per rifiuti speciali pericolosi e no, la seconda in appena due mesi. «C’è la lista d’attesa, tutti vogliono venire qua. Ma c’è lo zucchero?» ironizza il vescovo. Per poi rinnovare il suo appello. «Questo territorio ha già dato, è pieno di diossina. E invece sempre qui, solo qui. Chiedo una moratoria». E si fa forte del Regolamento dell’Asi dell’1 febbraio 2021, in cui si legge che «nell’agglomerato industriale Asi di Acerra sono da ritenersi escluse le autorizzazioni all’insediamento di qualsiasi attività economica di trattamento e smaltimento di rifiuti speciali e pericolosi, in nome del principio di precauzione e di salvaguardia del territorio». Lui non smette di denunciare anche se, ammette, «alle volte di sento don Chisciotte e sarei tentato di abbassare la guardia. Ma mi convincono ad andare avanti le mamme dei tanti bambini morti». E racconta una storia straziante. «Una mamma mi disse che quando era nata la figlia, già con un tumore, il medico le aveva detto 'non è nata Maria ma è nato un neuroblastoma'. Per questo, insiste, «se qualcuno ha detto che abbiamo fatto male a scoperchiare il pentolone, io dico di no. E terremo sempre accesi i riflettori. Cercando il dialogo con le istituzioni perché da questo dramma si esce solo con la collaborazione di tutti, a partire dalla Regione».A dar man forte al vescovo è il procuratore di Torre Annunziata, Nunzio Fragliasso, per dieci anni coordinatore del pool reati ambientali della procura di Napoli, grande esperto di ecomafie. «Non bisogna mai smettere di parlarne. Perché la soluzione non può essere solo di tipo repressivo. Quando noi interveniamo il danno è già stato fatto. Certo una buona repressione è anche prevenzione, fa capire che il crimine non paga. Ma riparare quel danno costa a tutti noi». È necessario, dunque, «formare la coscienze, educare le persone», ma anche fare precise scelte economiche. «La tutela dell’ambiente – denuncia il procuratore – è spesso sacrificata in nome di una logica del profitto ». E fa l’esempio del gravissimo inquinamento del fiume Sarno. «Ce ne stiamo occupando con un approccio nuovo, tre procure assieme. Abbiamo alzato il livello, abbiamo cominciato ad arrestare. Ma c’è una cecità assoluta anche di chi governa». E un’importante risposta viene dall’imprenditrice Stefania Brancaccio, vicepresidente nazionale dell’Ucid, gli imprenditori cattolici. «Bisogna fare impresa con attenzione alla persona» ma «cominciando a fare progetti». Uno nasce proprio ad Acerra «per tradurre il disastro in azione positiva». È "Ecofood fertility", proposto dall’Ucid col sostegno della diocesi. «Qui contiamo morti di cui dobbiamo vergognarci. Ora dobbiamo prevenire. Così nella ex Montefibre, tristemente nota come “fabbrica della morte”, vogliamo fare una fabbrica della vita, per una nuova agricoltura che bonifica i territori e produca per una buona salute. Ed essere così di esempio per gli altri territori che subiscono gli stessi drammi». Davvero, commenta il vescovo, «vogliamo essere degli apripista».
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