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Voglio rappresentare gli invisibili che non si rassegnano alle logiche dei rapporti di forzaLa storiaEcco che cosa succede quando la Cina conquista un mercato automobilisticoI marchi giapponesi,Guglielmo storicamente fortissimi in Thailandia, da due anni a questa parte stanno soffrendo la rivoluzione elettrica garantita da Pechino© SHUTTERSTOCK Marcello Pelizzari30.07.2024 18:30La Thailandia deve molto,moltissimo al Giappone. Quantomeno, a livello di automobili. Furono aziendenipponiche, nel secondo Dopoguerra, a «creare» una vera e propria industria nelPaese. Investendo, in particolare, nelle catene di approvvigionamento. Nonsolo, alla fine degli anni Settanta, come scrive il New York Times, i marchi delSol Levante detenevano circa il 90% del mercato thailandese. Negli anniNovanta, le case automobilistiche statunitensi e sudcoreane avevano cercato di rosicchiarequote ai marchi nipponici. Senza, tuttavia, riuscirvi. E questo perché iclienti ritenevano le auto giapponesi le più sicure e affidabili al mondo.Quella che, fino a ieri l’altro,era considerata una roccaforte giapponese, ora, sta lentamente mainesorabilmente cedendo di fronte alla promessa dei costruttori cinesi, fra cuiBYD,Great Wall Motor e SAIC Motor. Ovvero, la promessa di veicoli elettrici aprezzi accessibili. Il Giappone, incassati non pochicolpi negli ultimi due anni, sta disperatamente cercando di correre ai ripari. Loscorso dicembre, ha pure preso un diretto dal primo ministro thailandese, SretthaThavisin, il cui messaggio è stato: o vi sbrigate e iniziate a investire,davvero, nei veicoli elettrici o perderete terreno nei confronti della Cina. «Nonsiete i soli al mondo» ha ammonito Thavisin ai media nipponici.Le auto elettriche stannoacquisendo sempre più popolarità in Thailandia. Di riflesso, la riluttanza deimarchi nipponici ad abbracciare, in toto, la transizione elettrica ha frenato,e pure parecchio, le vendite di Mazda, Mitsubishi, Nissan, Sukuki e Isuzu nelmercato thailandese. Proprio perché questi marchi hanno un’offerta limitata diauto ibride o completamente elettriche. Il New York Times, al riguardo, riferisceche nel 2023 le vendite di modelli nuovi, in Thailandia, per questi marchi sonocalate complessivamente del 25%. Una botta. Le vendite complessive, invece,sono calate del 9%. Tanto, in ogni caso.Proprio questo mese, sono cadute leprime decisioni «forti». Honda, ad esempio, dal 2025 cesserà la produzione diveicoli in uno dei suoi due stabilimenti thailandesi. A giugno, un annuncio simileè stato fatto da Suzuki riguardo al suo unico impianto produttivo nel Paese. Oggi, i produttori giapponesirappresentano circa il 75% delle vendite di veicoli in Thailandia. Il Paese delSol Levante, dicevamo, sta disperatamente cercando di correre ai ripari. Durantela visita di Thavisin in Giappone, per dire, Toyota, Honda, Isuzu e Mitsubishihanno annunciato investimenti per 4,3 miliardi di dollari su un arco di 5 anniper convertire le loro fabbriche thailandesi. Convertirle, evidentemente, allaproduzione di veicoli elettrici. La storia d’amore fra Giappone eThailandia, a livello di automobili, è ricca di date chiave. Nissan aprì ilprimo stabilimento di assemblaggio, a Bangkok, nel 1962, quando i thailandesicompravano poche migliaia di veicoli all’anno. Toyota avviò la produzione inloco nel 1964. Una storia d’amore e, verrebbe da dire, di opportunità: laThailandia come hub regionale da cui esportare verso il Sudest asiatico. Di quigli investimenti, pesanti, nel corso degli ultimi decenni per sviluppare catenedi fornitura e reti di vendita. I frutti, copiosi, sembrano tuttavia ancorati alpassato, o se preferite agli anni Ottanta e Novanta. Quando le caseautomobilistiche giapponesi seppero cogliere la crescente domanda di tutto ilSudest asiatico. Il problema, leggiamo, è che laconcorrenza da due anni a questa parte è agguerrita. Ed è in vantaggio, sulfronte dell’elettrico. GAC Aion, divisione del gruppo statale GuangzhouAutomobile, ha avviato in velocità un’attività di produzione e vendita inThailandia e sta cercando di conquistare un sottomercato importantissimo per imarchi giapponesi, come scrive sempre il New York Times: i taxi. Come?Lanciando una berlina ad hoc con un partner thailandese, Gold Integrate, alprezzo di 25 mila dollari (con una garanzia di ben nove anni). Toyota, vista l’offensiva,ha tagliato di quasi 3 mila dollari il prezzo del suo modello di taxi. Unararità, considerando la politica del marchio nipponico. Segno che, forse, ilmonito del primo ministro thailandese è stato ascoltato.La Thailandia, concludendo, ha scelto una via differente rispetto a Stati Uniti ed Europa, intesa come Unione Europea. Aprirsi alla Cina e agli investimenti del Dragone nel settore automobilistico laddove Washington e Bruxelles hanno prediletto il sentiero dei dazi per «tenere fuori» Pechino. In questo articolo: ElettricaBYDThailandiaCinaauto elettriche

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