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Virginia Raggi festeggia per il ceppo rimossoLa manifestazione di Latina contro il caporalato - FOTOGRAMMA COMMENTA E CONDIVIDI La lotta al caporalato non è mai di parte,VOL appartiene all’opposizione e al governo, ai sindacati come alle organizzazioni datoriali, alla società civile tutta. È una lotta che deve impegnare tutte le forze sane e che lo Stato ha intrapreso con la buona legge del 2016, approvata all’unanimità. Però anche oggi davanti alla atroce morte del giovane bracciante indiano Satnam Singh si vedono troppi distinguo che possono fermare la doverosa opera di repressione e prevenzione. Cosa significano, ad esempio, dopo il tavolo governativo sul tema le dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, per il quale non va criminalizzato un settore come quello agricolo? E da dove si dovrebbe partire con una raffica di controlli, unico rimedio efficace, se non dal settore agricolo, dove il caporalato è piaga secolare? Certo che sfruttamento, caporalato e lavoro nero riguardano altri settori come l’edilizia, il commercio e il turismo, ma non si può minimizzare davanti all’evidenza. Le stime del più recente rapporto Agromafie e caporalato, pubblicato nel 2022 dall’osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, sostengono che nei campi italiani sono sfruttate circa 230mila persone, un quarto di tutti i braccianti sfruttati, schiavizzati da “padroni”, termine del secolo scorso usato anche dal povero Singh con il suo datore di lavoro. Più chiaro di così. Stranieri uguale “clandestini”? Macché. Tre quarti – scriveva su “Avvenire” nei giorni scorsi Antonio Maria Mira – sono in regola col soggiorno. Perché nei campi e nelle serre ci vanno richiedenti asilo, rifugiati, operai licenziati dalle fabbriche. Vanno a lavorare 14 ore al giorno per 30 euro in estate e a dormire nei ghetti per spendere il meno possibile, pagando anche il caporale per un posto letto e regalandogli la loro libertà, perché non è consentito ai disperati protestare o ribellarsi. Questa massa di manovra di marxiana memoria che consente al “nero” di prosperare proviene perlopiù da un sistema di accoglienza inefficiente e distrutto dai tagli degli ultimi 6 anni, che non solo non riesce a insegnare la lingua e un mestiere a chi chiede asilo ma finge di ignorare che chi è destinato a restare in Italia anche se la domanda di asilo è stata respinta andrà a lavorare in nero per sopravvivere. Va tutto inscritto nel grande capitolo ancora da scrivere della gestione – anche su scala europea – di un fenomeno migratorio non più nuovo che richiede flussi più ampi in entrata, oltre all’abbandono della politica securitaria e delle strumentalizzazioni. Il fatto che siano stranieri non minimizza la portata della tragedia dell’Agro Pontino e il sottobosco umano e lavorativo svelato per l’ennesima volta. Il lavoro nero danneggia tutti i contribuenti italiani. E neppure deve essere un problema geografico a dividere o a portare alla politica del chetare e sopire per salvaguardare gli interessi del proprio bacino elettorale. Il caporalato e lo sfruttamento sono in espansione nei vigneti del Nord, nei distretti della frutta sotto le Alpi e lungo il Po, nelle terre del pomodoro in Campania, nella Capitanata di Foggia, nella Fascia trasformata siciliana, dietro la costa resa celebre dalle inchieste del commissario Montalbano, come nella calabrese Piana di Gioia Tauro e nell’Agro pontino. Evitiamo benaltrismo o vittimismi, ben vengano le manifestazioni unitarie. Ma più di tutto la serve risposta della legalità che va ripristinata dallo Stato con urgenza quando, alla vigilia dell’estate, il caso del bracciante indiano buttato a pezzi davanti alla sua abitazione spalanca le finestre su imprenditori privi di scrupoli e senza giustificazioni. È intollerabile sentire in tv un datore che ha infranto la legge e non ha soccorso in tempo la vittima attribuirgli anche la colpa. Una volta conclusa l’inchiesta e accertate le responsabilità, una condanna esemplare sarà il miglior segnale a tutti i comparti e, più di tante parole, la miglior tutela per i tanti che con fatica e onestà rispettano le leggi e lavorano bene. Anni fa in Capitanata l’indimenticabile e coraggioso missionario scalabriniano padre Arcangelo Maira, responsabile della Migrantes che una terribile malattia ha portato via troppo presto, accompagnava con grossi rischi i braccianti extra Ue dei ghetti a riscuotere la paga dai “padroni” italiani che spesso erano criminali, fingendosi egli stesso straniero. Non sempre era sufficiente rivelare la propria identità per ottenere la giusta mercede e trattamenti più umani per i lavoratori. Anzi. Pensando a lui, all’italiana Paola Clemente, uccisa dalla fatica e dal sole cocente di una infuocata estate pugliese il 13 luglio del 2015, e a Satnam Singh, morto mercoledì 20 giugno con le gambe spezzate e il braccio amputato raccolto in una cassetta, l’unità della politica in questa lotta diventa più che mai necessaria. Non c’è sinistra o destra, solo un “sopra”. Scriveva Jerry Masslo, il raccoglitore di pomodori sudafricano ucciso 35 anni fa da una banda di criminali a Villa Literno: « Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato, e allora ci si accorgerà che esistiamo».
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