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Il futuro della pizza a New York? È elettricoIl caso posto all’attenzione del giudice non era banale: si trattava di stabilire il possibile esonero da spese mediche in capo ad una donna,ETF per le cure del figlio autistico. La risposta del giudice colombiano Juan Manuel Padilla è stata positiva. È di questi giorni la notizia che un giudice colombiano avrebbe redatto una sentenza con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale generativa “ChatGPT”. In pratica, il giudice avrebbe interrogato “ChatGPT”, ricevendo una risposta, per poi utilizzarla ai fini della decisione, tanto da menzionarla proprio nella sentenza. Il caso posto all’attenzione del giudice non era banale: si trattava di stabilire il possibile esonero da spese mediche in capo ad una donna, per le cure del figlio autistico. La risposta del giudice colombiano Juan Manuel Padilla è stata positiva. Intervistato sul possibile rischio di sostituzione del robot all’essere umano, Padilla ha dichiarato (BluRadio) che la decisione è spettata comunque a lui, che ha saputo formulare le domande nel modo giusto. Sul rischio di sostituzione, ci si è già espressi: i giuristi non potranno mai essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Ma, a quanto pare, mentre il dibattito teorico prosegue, la realtà va avanti a passo spedito, moltiplicando le possibili applicazioni dell’intelligenza artificiale nell’ambito giuridico. E allora viene da domandarsi se la soluzione seguita dal giudice colombiano possa essere consentita anche nel nostro ordinamento. In realtà occorre distinguere: se “ChatGPT” dovesse servire da ausilio, ossia come una sorta di banca dati avanzata, allora si potrebbe anche ritenere utilizzabile, purché la decisione ultima spetti all’essere umano, sempre, inderogabilmente. Perché, sembra quasi ovvio ribadirlo, una sentenza che definisce un giudizio non può essere ridotta a una mera ricerca giurisprudenziale, per quanto accurata ed evoluta anche grazie agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale nello specifico. cosa significa decidere Decidere, infatti, significa risolvere un caso che, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, non è uguale a nessun altro, ma solo a se stesso. Decidere significa applicare la legge, il risultato necessitato di fatto e diritto, accertato e motivato, passando, necessariamente, attraverso il contraddittorio delle parti; ciò secondo la formula che il provvedimento giudiziario PG consiste nel mandare il fatto F nel diritto D (PG : F --> D). È evidente, infatti, che alla luce dei diritti costituzionalmente garantiti che presiedono il nostro processo, in primis del diritto di difesa ex art. 24 Cost. una sentenza che recepisce acriticamente una risposta di “ChatGPT”, che non tiene conto delle difese delle parti, è sostanzialmente “nulla”, ovvero fisiologicamente fallace, perché lede un dato imprescindibile nel processo. Perché la verità che emerge all’esito di un processo non è una risposta secca ad una domanda, formulata sotto forma di ricerca nel proprio database: è una risposta che si ottiene attraverso un percorso preciso e necessario che prende il nome di “contraddittorio e parità delle parti” (art. 111 Cost.) e che non è un elemento surrogabile o eliminabile. Almeno quando non è surrogabile la capacità di trovare, nella soluzione del caso concreto, quell’equilibrio, spesso difficile, tra i diritti coinvolti, che è una capacità tipicamente e necessariamente umana. E allora è inutile parlare tanto della nostra Costituzione come della più bella del mondo: occorre anche applicarla, in primo luogo non pretermettendo le prerogative del diritto alla difesa e del contraddittorio, per poter rendere il mondo anche più giusto, in senso umano si intende. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediLuigi Viola e Luca Caputo
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