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Guerra in Ucraina, Mariupol: “I militari russi chiedono soldi ai civili per uscire dalla città”Fra Riccardo,analisi tecnica oggi missionario in Tanzania, insieme a Patriciello alcuni anni fa COMMENTA E CONDIVIDI Con questo articolo, don Maurizio Patriciello inizia per Avvenire.it una rassegna di ritratti di persone che hanno lasciato un’orma di bene nella sua vita. Non necessariamente volti illustri, ma tutti capaci di donargli una riserva di speranza. Chiedeva la carità di un passaggio all’angolo della strada. Giovane, scanzonato, saio grigio malamente rattoppato, barba lunga, rada, tonsura a tutto tondo. Scalzo. Dal crocifisso agganciato al cordone che gli cinge la vita, capisco che potrebbe essere un seguace di san Francesco. Incuriosito, mi fermo: «Sali, dai. Chi sei? Come ti chiami? Perché vai scalzo? Non dirmi che tenti di far contento Dio...».«Sono Riccardo, un frate francescano» Poi ridendo: «Far contento Dio? Ma che dici? Mi credi tanto sciocco? Il nostro stile di vita è un modo per tentare di ricordare agli uomini, spesso distratti, che i poveri hanno fame. Che dobbiamo averli a cuore, pretendere i loro diritti. Noi abbiamo scelto di stare dalla loro parte, con l’esempio, ma senza inveire contro i ricchi. «E tu? Che fai di bello?». «Mi chiamo Maurizio, sono infermiere. Sto andando, per lavoro, all’ospedale “San Gennaro”. Sai? Non sono cattolico, o, almeno, non lo sono più». Ci dicemmo ancora poche cose, poi ci separammo. Non pensai – come avrei potuto? – che quell’incontro mi avrebbe sconvolto la vita. Non avevo ancora 30 anni. Nato in una famiglia cattolica, dopo l’improvvisa morte della mamma, deluso, mi ero allontanato dalla Chiesa, sbattendo le sue porte alle mie spalle. Che ne sarebbe stato di me se non avessi trovato sul mio cammino una Comunità evangelica che mi accolse, mi amò, mi donò una Bibbia, mi difese dalle mille trappole in cui tanti giovani cadono, proprio non riesco a immaginarlo. Per la “mia” comunità evangelica nutro una riconoscenza eterna. Dopo gli anni di entusiasmo, però, sentivo che quell’esperienza – bella, coinvolgente, genuina – giungeva a termine. Come un bambino nel grembo materno, alla fine della gravidanza, sentivo che dovevo uscire, andare via, riprendere il cammino. Per non morire, per non far morire. Ci volle coraggio, ma decisi di essere onesto con me stesso fino in fondo. Non pretesi di essere compreso. Rimasi solo, senza amici, senza chiesa, senza certezze, ma con uno sguardo aperto, simpatico, benevolo sul mondo e sull’umanità. Qualche settimana dopo aver incontrato fra Riccardo, andai a cercarlo. Pensavo, ovviamente, di trovarlo in un antico convento di mattoni, quale fu la mia meraviglia, invece, quando mi resi conto che con la sua fraternità viveva in alcuni vecchi vagoni ferroviari dismessi, nei pressi del bosco di Capodimonte, a Napoli. Vagoni in cui ci si arroventa d’estate e si gela d’inverno. Vita semplice, povera, spartana. Per certi aspetti, eroica. Rimanemmo a parlare seduti su due pietre nel minuscolo giardino. «Ascolta, frate, io mi trovo in una situazione strana. Sono alla ricerca ma non so di cosa. So di avere un appuntamento ma non so con chi. Ho verso il cattolicesimo un’avversione. Tante vostre cose non le capisco, non mi piacciono, non le condivido. Magari fossero tutti come te, i preti: poveri, umili, accoglienti. Ho tanti dubbi che mi attanagliano, mi piacerebbe discuterne con te. Accetti di imbarcarti in questa avventura?». Scontata la risposta. Ci incontrammo sempre più spesso. Dopo essere diventati amici, facemmo un passo avanti: lui padre spirituale, io discepolo. In estate, felice, in autostop, scesi con loro in Sicilia. A Corleone i frati vivono in un vecchio carcere appollaiato su un roccione, a strapiombo sui valloni. Lassù il cielo si tocca con la mano. Di notte, sdraiati sulla roccia rovente, restavamo a fissar le stelle e a interrogare Dio. Nel paese di Riina, Provenzano, Bagarella, di san Leoluca e di tanta gente onesta, rimasi a meditare un paio di mesi. Avevo sete. Di verità, di libertà, di giustizia, di amore. Avevo esigenza di sapere. Armato di caparbia pazienza mi iscrissi alla Facoltà teologica. Da laico. Fu un anno faticoso e bello. Di giorno sui banchi, di notte, in ospedale, a curare Cristo nei fratelli sofferenti. Ero ormai pronto per il grande salto. L’ospedale nel quale lavoravo – infermiere prima, caporeparto dopo – distava pochi passi da casa mia. Ci arrivavo a piedi. Lasciare quel poco che avevo costruito non mi pesò. Al contrario, mi rese libero come mai lo ero stato prima. Papà – povero papà! – non si dava pace. Pensò seriamente che fossi uscito di senno. Non aveva tutti i torti. Le grandi scelte sono sempre accompagnate da un pizzico di follia. Il Signore gli farà la grazia, prima di morire, di baciare, commosso, le mani al figlio sacerdote. Mentre Riccardo, dall’Africa, dove era partito missionario, m’inviava la sua benedizione, che ancora mi accompagna.
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