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Napoli, vigile colpito in testa con una spranga da un clochard: l'agente gli spara sette volteCOMMENTA E CONDIVIDI La legge non può sancire l’esistenza di un “terzo genere”,Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock ma ci sono persone che si riconoscono in una “identità altra”, i loro diritti sono garantiti dalla Costituzione e quindi questa realtà dev’essere posta all’attenzione del legislatore. È quanto deciso dalla Corte costituzionale in risposta a una richiesta del Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione del sesso. Nel momento in cui una persona decide che il modo più opportuno per risolvere i suoi problemi di identità di genere è l’intervento chirurgico – avevano chiesto in sostanza i giudici altoatesini – può optare per l’attribuzione all’anagrafe di un genere “non binario”, quindi né maschio né femmina? No, ha risposto la Consulta. Oggi sarebbe impensabile definire per legge un “terzo genere” per quanto riguarda lo stato civile perché – si legge nella sentenza - «avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria». Il diritto di famiglia, quello del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili), spiegano i giudici, sono tutti pensati in chiave “binaria”, quindi maschile e femminile. L’introduzione di un genere “non binario” sarebbe una rivoluzione giuridica impossibile da realizzare con una sentenza.Prendere atto di questo impianto giuridico, non significa però – dice ancora la Consulta – negare che esistono persone transgender o comunque la cui dimensione in relazione all’identità di genere può diventare motivo di grave sofferenza. Scrivono i giudici: «La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)». In sostanza, proprio alla luce dell’articolo 2 della nostra Carta fondamentale, che riconosce i diritti inviolabili, le persone “non binarie” devono essere tutelate nei loro diritti fondamentali e non devono essere discriminate. C’è, anche nei loro confronti, una copertura costituzionale che assicura totale rispetto e piena dignità. La Consulta ricorda anche gli articoli 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e 32 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività…”) per ribadire che quando la percezione di un genere “non binario” induce disparità di trattamento o compromette il benessere psicofisico della persona «questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute». Come tutelare al meglio i diritti di queste persone? Qui i giudici chiamano in causa la politica. Valutare il fenomeno alla luce della scienza – non certo dei pregiudizi o dell’ideologia – e interrogarsi sulla maniera migliore per intervenire a garanzia delle persone transgender, è compito del Parlamento: «Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione del tribunale mostra una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».In sostanza la Consulta riconosce come realtà da affrontare anche sul piano legislativo l’esistenza di persone che vivono con sofferenza il nodo dell’identità di genere. Non si tratta di fare propaganda gender, come direbbe qualcuno, ma di riconoscere che queste persone, poche o tante che siano - le statistiche sono tutt’altro che affidabili – ci sono e hanno gli stessi diritti e la stessa dignità di tutte e di tutti. Sono persone che “non” hanno scelto di essere così, spesso vivono una pesante condizione di conflitto interiore e di incertezza personale, quindi vanno aiutate, anche dal punto di vista legislativo. Come vanno aiutati e accompagnati i genitori i cui figli sono alle prese con difficoltà identitarie. Oggi questo non avviene mai. È un problema complesso, dominato dai chiaroscuri e avvolto in tante incertezze, dove nulla è scontato, né dal punto di vista medico-psicologico né da quello educativo. Per questo occorre approfondire, ascoltare il parere degli esperti – e non è facile individuare quelli giusti – dare voce a chi vive sulla propria pelle questa condizione di passaggio. Soprattutto occorre diffidare di tutti coloro che pretendono di affrontare la questione con l’accetta. Non funziona così e non servono interventi d’autorità per risolvere questioni – come l’identità alias - che toccano così in profondità la dimensione personale dei ragazzi e delle ragazze. In una logica che punta a cancellare tutte le discriminazioni pensare che anche le persone più fragili dal punto di vista della propria percezione antropologica possano godere di pari diritti e di pari opportunità, non toglie diritti a nessuno e non rappresenta un pericolo sociale. Un punto di partenza che dovremmo adottare anche in una prospettiva di accoglienza cristiana se non vogliamo che tutte le riflessioni per una pastorale inclusiva finiscano per risolversi in auspici tanto belli quanto inutili.

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