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Alberto Scagni, la madre: "Cella scena di una sommossa"Caspar David Friedrich,trading a breve termine "Paesaggio invernale", 1811 - WikiCommons COMMENTA E CONDIVIDI Nel 1818 Goethe e Friedrich si incontrarono. Sicché quando lo scrittore disse al pittore che avrebbe dovuto approfondire lo studio scientifico delle nuvole, Caspar rispose secco: «Sarebbe la fine della pittura di paesaggio». Goethe, che ammirava il maestro, restò perplesso e quella risposta così determinata lo accompagnò per molto tempo e pur non distogliendolo dal suo intimo convincimento che scienza ed arte dovessero viaggiare all’unisono, aprì gli occhi sul significato profondo dello spirito romantico. Del resto, riguardo al senso dell’arte, il pensiero di Friedrich era davvero innovatore: «L’unica autentica fonte dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo puro e infantile».L’episodio dell’incontro tra i due grandi è l’incipit del bel saggio che Roberto Tassi scrisse per l’edizione italiana degli Scritti sull’arte di Caspar David Friedrich, oggi felicemente ristampati (Abscondita, pagine 134, euro 20,00). Il prezioso volume che aveva visto la luce per la prima volta in Italia nel 1989, con la traduzione, oggi riproposta, di Luisa Rubini, si rifà al volume Caspar David Friedrich nelle lettere e nelle confessioni, apparso a Berlino nel 1968, a cura di Sigrid Hinz. Gli scritti sono ripartiti in due grandi capitoli: scritti veri e propri, tra cui gli “Aforismi sull’arte e sulla vita”, e “Testimonianze”, tra cui proprio quelle di Goethe.Friedrich interpretava nella sua pittura un sentire estetico incarnato nel sentimento religioso. Era di lì che muoveva il suo sguardo verso la natura. Se non si legge in questa chiave la sua opera si rischia di cogliere nel suo lavoro solo il lato sentimentale. Il suo vedere infatti aveva un fondamento contemplativo, era un ponte verso l’oltre e la sua intrinseca espressione simbolica era un vettore: conduceva a Cristo e alla croce. Come straordinariamente l’artista testimonia nel suo celebre Paesaggio invernale, del 1811, in cui un viandante, evidentemente colpito da un male fisico, gettate le stampelle, in un paesaggio colmo di neve, si poggia disteso su di una roccia a contemplare il crocifisso che si staglia nella sagoma di un pino. L’albero somiglia alla guglia di una cattedrale che si intravede sullo sfondo, ma è al tempo stesso natura: la natura che è, appunto, l’oggetto ineludibile della sua stessa contemplazione. Ne derivava una visione dell’arte come mediatrice tra la natura e l’uomo. Una mediatrice necessaria e frutto di una autentica rivelazione: «Ogni vera opera d’arte viene concepita in un’ora sacra e nasce in un’ora felice, il più delle volte senza che un artista ne abbia coscienza, da un intimo impulso del cuore». D’altra parte è nell’esercizio diuturno, nell’applicazione e nel metodo, che il miracolo accade: «Se vuoi sapere cosa sia la bellezza, interroga il signor esperto di estetica. Potrà esserti utile al tavolino del tè, ma non dinanzi al cavalletto: lì devi sentire cosa è bello». Sicché «Il compito dell’artista non consiste nella fedele rappresentazione del cielo e dell’acqua, delle rocce e degli alberi; sono la sua anima e la sua sensibilità a doversi rispecchiare nella natura».

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