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La commissaria europea Ferreira: «L’Italia di Meloni può utilizzare meglio i fondi di coesione»

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Dombrovskis: «Il bilancio italiano non è in linea con le nostre raccomandazioni»Giovanni Maria Flick - Foto d'archivio COMMENTA E CONDIVIDI Il dispositivo della Corte costituzionale depositato giovedì è «in completa linearità con la “sentenza-madre” del 2019». Sbaglia chi parla di «svolta aperturista» o ritiene che la Consulta si sia «spinta troppo avanti» Roma Le interpretazioni date alla sentenza 135 della Corte costituzionale sul fine vita,investimenti depositata mercoledì, sono «fuorvianti». Sia quelle che hanno voluto vedere una «svolta aperturista» sia quelle che l’hanno considerata «troppo cauta». Così come non sembrano fondate le preoccupazioni di chi ha considerato il nuovo intervento della Consulta uno «spingersi troppo avanti». Per Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte, in realtà ci troviamo in una situazione di «completa linearità» con la sentenza madre, la numero 242 del 2019, che ha fissato i quattro paletti – patologia irreversibile, sofferenza fisica e psichica intollerabile per il paziente, capacità di esprimere la propria volontà e presenza di sostegni vitali - che rendono «non punibile » una persona che assiste la morte di un malato che si trovi nelle condizioni sopra citate. E laddove qualcuno ha voluto vedere nell’ampliamento dei “sostegni vitali” un allargamento delle casistiche di ricorso alla morte assistita, Flick è chiaro: «Con la sentenza 242 del 2019 la Corte aveva fatto degli esempi, ma già allora era chiaro che contava il principio, il criterio- chiave. Un sostegno è “vitale” quando la sua assenza determinerebbe la morte in breve termine. Il giudice, nel dialogo con la scienza medica in continuo progresso, valuta il rispetto di questo criterio. Il malato che ha una patologia irreversibile, soffre e chiede la morte in piena coscienza di sé, ma non è aggrappato alla vita da un sostegno vitale, non per questo vede leso il principio di uguaglianza, spiega la Consulta. Che ricorda come persista nel nostro ordinamento il diritto all’autodeter-minazione terapeutica, che consente di rifiutare trattamenti non imposti per legge. Come pure esiste il “dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili”, che altrimenti potrebbero essere indotte, scrive ancora la Corte, “a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi”». Un dibattito forzato, insomma? Certe euforie e certi timori non mi sembrano condivisibili. Già il titolo del comunicato parla chiaro, “Suicidio assistito: la Corte Costituzionale ribadisce gli attuali requisiti e ne precisa il significato”. Nemmeno voglio entrare nella disputa tra “rigetto interpretativo” e “accoglienza interpretativa”, semplicemente qui abbiamo una sentenza che aggiunge elementi in un quadro già noto. E allora cosa va accolto prioritariamente da questa sentenza? Io direi che l’incipit non è casuale: la Consulta torna a chiedere una legge che regoli la materia. La Corte costituzionale ha già fissato i paletti, l’ha fatto dosando attentamente i diritti in gioco, assumendo come punto di partenza l’inviolabile dignità della vita umana. I quattro criteri devono essere compresenti e sono così chiari che il giudice ha già gli strumenti per verificarne l’esistenza.Sulla legge torneremo. Restando alla sentenza, quindi il giudice poteva già “interpretare” il sussidio alla vita di determinati strumenti e trattamenti? Certo, ma soprattutto ha dal 2019 i paletti che gli impediscono di fare interpretazioni “ricostruttive” rispetto alla sentenza della Corte Costituzionale, che è insuperabile. La Consulta fa esempi di nuovi trattamenti vitali, come l’evacuazione manuale, il catetere… Non si tratta di estensioni della “non punibilità” del terzo che assiste o partecipa? No, è il criterio che guida l’interpretazione. Non l’interpretazione che riscrive il criterio. Cosa dice la Consulta: intanto esiste il diritto a non ricevere trattamenti non desiderati, anche se salvavita. E se una persona, un terzo, favorisce la volontà di non ricevere un trattamento, stante anche le altre tre condizioni – irreversibilità, sofferenze, piena consapevolezza -, non è punibile. Non vedo la novità, l’allargamento, la “svolta”. È noto che in alcune circostanze determinati trattamenti sono dei veri e propri sostegni alla vita senza i quali arriverebbe la morte in breve tempo. Torniamo alla legge: è calendarizzata a settembre. Un segnale buono a suo avviso?È un fatto positivo. Nella scorsa legislatura in uno dei due rami del Parlamento è stato raggiunto un equilibrio ragionevole, da cui si può ripartire. Per quanto mi riguarda, è una idea personale, il testo dovrebbe essere “più stretto” e non “più largo”. In ogni caso, non si potrà andare oltre la cornice disegnata dalla sentenza della Consulta del 2019. Il fatto che una legge ci voglia è di tutta evidenza, anche perché le Regioni stanno assumendo iniziative fuori dal seminato anziché adempiere a quelli che erano i loro compiti, già fissati, per la dignità del fine vita. Ci si arriverà alla legge? Ci si arriva se si torna a un dialogo sereno e non strumentale e se si parte dall’idea di vita come relazione con gli altri. Il “Piccolo lessico del fine vita” realizzato dalla Pontificia accademia per la vita potrebbe essere uno strumento utile anche per il decisore pubblico. La sentenza di mercoledì fa anche un chiaro richiamo alla giurisprudenza europea… Un passaggio rilevante. La Consulta ricorda che la Corte di Strasburgo appena l’anno scorso ha ribadito l’ampio margine che gli Stati nazionali hanno nel bilanciamento tra “diritto all’autodeterminazione” e tutela della vita umana. Non sono ammesse forzature.

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