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Strage di Erba, la Procura generale di Milano è al lavoro: spunta l’ipotesi di una revisione del processoProfughi ghanesi in attesa di essere rimpatriati nel deserto vicino al campo di Choucha a Ras Jadir in Tunisa - Ansa COMMENTA E CONDIVIDI In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato 2024,ETF che si celebra oggi 20 giugno, sono 11 le città italiane che illumineranno i loro monumenti per sostenere la campagna di solidarietà dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati. L’iniziativa, nata nel 2017 è diventata ormai un appuntamento fisso in Italia e a livello internazionale e vede la partecipazione delle città di Agrigento, Ancona, Bari, Firenze, Genova, Napoli, Palermo, Torino, Trieste, Verona e Udine. «Solidarietà significa lavorare insieme per un mondo che accoglie le persone rifugiate e valorizza i loro punti di forza e le loro conquiste. La solidarietà con le persone costrette a fuggire che secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia hanno raggiunto la cifre record di 120 milioni - consiste nel trovare soluzioni affinché possano ricostruirsi un futuro in dignità». L’Unhcr ribadisce che viene sovrastimata la portata reale dei flussi verso l’Italia e l’Europa visto che il 75% dei rifugiati viene accolto nei Paesi a basso e medio reddito. Lo scorso anno, sono state poco meno di 160mila le persone sbarcate sulle coste italiane. Una delle soluzioni, secondo Unhcr, sono i corridoi lavorativi, percorsi sicuri e regolari che consentono ai rifugiati, in possesso di determinate abilità professionali, di entrare e soggiornare in un altro Paese per lavorare.«Prima, la produzione di riso era buona, ma ora no a causa delle scarse piogge. La mia famiglia coltivava riso, ma ora ha smesso perché non è più redditizio». «Le fattorie sono molto secche ora. Questo ha portato molte difficoltà alla famiglia». Queste parole – di due contadini trentenni rispettivamente della regione centrale del Gambia e della capitale, Banjul – vanno a comporre due delle 128 testimonianze raccolte dalla Organizzazione non governativa ActionAid sul Paese d’Africa con il più alto numero di residenti all’estero rispetto alla popolazione: quasi l’8 per cento. Anno dopo anno, il riscaldamento globale è diventato uno dei fattori chiave della migrazione. La mobilità si trasforma, dunque, in fattore di adattamento anche se, molto spesso, i protagonisti non ne sono consapevoli.Il nesso di causalità – ribadito dagli scienziati – tra clima, distruzione delle economie di sussistenza e incremento della povertà non è, spesso, così chiaro agli occhi dei diretti interessati. Paradossalmente, ad avere maggiore consapevolezza della crisi ambientali sono quanti non possono nemmeno partire perché privi anche dei pochi mezzi necessari a intraprendere il viaggio della disperazione. «Immobili involontari», li definisce lo studio, donne e uomini intrappolati nelle proprie nazioni di origine devastate dall’emergenza ecologica per mancanza di risorse. Il caso Gambia, però, svela anche un altro aspetto cruciale del dramma delle cosiddette migrazioni climatiche: la loro invisibilità politica e giuridica da parte dell’Unione Europea. Dalla fine della dittatura, nel 2016, lo Stato è considerato «sicuro»: impossibile, dunque, per i profughi ottenere asilo nonostante sia un Paese particolarmente vulnerabile e già drammaticamente colpito dal riscaldamento del pianeta. L’Unione Europea – denuncia il rapporto – ha nettamente diviso la gestione del cambiamento climatico da quella delle migrazioni. La prima, oggetto del Green Deal, «un’ambiziosa, organica e innovativa strategia» di contrasto alle emissioni. La seconda è disciplinata dal Nuovo patto su migrazioni e asilo su cui prevale la deterrenza e, in cui, i riferimenti alla crisi ecologica sono marginali. Il “fattore umano” ostaggio del cambiamento climatico non è tra le priorità.Non è indubbiamente facile definire in modo organico la categoria dei migranti climatici. In ambito internazionale, però, grazie ai giudici, si stanno facendo dei piccoli passi avanti. In questo contesto, l’inerzia europea risulta ancor più miope, mettendo in luce un palese “strabismo” tra la lotta alle emissioni e l’adesione ai princi delle Cop dell’Onu e la scarsa attenzione al fenomeno migratorio innescato da ragioni ambientali. Anche perché gli esodi aumenteranno nei prossimi decenni. Nel 2050, avverte l’ultima analisi appena pubblicata dalla rivista Nature, le persone del Sud del mondo in fuga dai disastri naturali saranno 143 milioni.
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