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Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock

Schianto tra un'auto e un furgone: due morti

Con l'auto tampona il rimorchio di un trattore: è graveRitrovata la bambina scomparsa a Piacenza dopo la scuolaIncidente stradale ad Alessandria, identificate le quattro vittime della tragedia

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Trovato cadavere in spiaggia a Punta Ala: potrebbe essere di Anna Claudia Cartoni, scomparsa a luglioLa Libia non è un “porto sicuro”. L’ha stabilito qualche giorno fa la Cassazione a proposito del caso di un rimorchiatore che nel luglio del 2018 aveva soccorso 101 naufraghi e poi li aveva riportati in quel paese. Secondo i giudici,èunportosicuroLesentenzeeifatticontanopiùtrading a breve termine si tratta di un «respingimento collettivo», vietato dalle convenzioni internazionali. Una pronuncia che può incidere sulle politiche in tema di immigrazioneLa Libia non è un “porto sicuro”. L’ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n. 4557/2024): riportare i migranti nel paese nordafricano costituisce «abbandono di persone minori o incapaci» (art. 591 del codice penale) e «sbarco e abbandono arbitrario di persone» (art. 1155 del codice della navigazione). Siccome questa pronuncia può incidere sulle politiche nazionali in tema di immigrazione – dal Memorandum con la Libia al Piano Mattei – dalle parti del governo si inizia a dire che la Libia non sarebbe più il paese non sicuro di cui parla la sentenza. Quest’affermazione non ha fondamento.La sentenzaLa Cassazione ha condannato il comandante del rimorchiatore Asso 28 che, nel luglio del 2018, aveva preso a bordo 101 migranti e poi li aveva riportati indietro, consegnandoli alla guardia costiera di Tripoli. Si è trattato di un «respingimento collettivo», condotta vietata dalle convenzioni internazionali, non potendosi qualificare la Libia come “luogo sicuro”. All’epoca dei fatti, «lo stato unitario libico non esisteva e le autorità di Tripoli, pur se riconosciute dalle Nazioni unite, risultavano però aver perso il controllo di parti molto vaste del territorio nazionale».Gli ermellini, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, affermano che la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è «precondizione della “sicurezza” dello Stato»; mentre «la condizione di “sicurezza” è l’effettivo rispetto di tali normative». La Libia non ha mai sottoscritto queste Convenzioni. Soprattutto, a fronte di situazioni «che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi, anche solo potenzialmente richiedenti asilo», secondo i giudici è sempre necessario «verificare in concreto la “sicurezza” dello Stato di destinazione».Libia luogo sicuro?È vero che – come dice la Cassazione – nel 2018 il Paese non poteva dirsi uno Stato unitario, con autorità unificate di coordinamento dei soccorsi in mare. Ma anche oggi permane la «frammentazione degli attori della sicurezza e l’assenza di comando e controllo», come attesta un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite del dicembre 2023. Peraltro, sussistono rapporti opachi tra “guardia costiera libica” e organizzazioni criminali – basti pensare al trafficante Al Milad Bija, comandante dell’Accademia navale – come Nello Scavo denuncia da tempo.La stessa Unione europea ha attestato «chiare indicazioni dell’infiltrazione di gruppi criminali nella guardia costiera». E non è tutto.Se nel 2019 l’Ue riconosceva alcuni progressi compiuti dalla Libia, anche grazie alla cooperazione della stessa Ue, successivamente le condizioni sono cambiate. Nel maggio 2023, il commissario Ue per l’Allargamento e le politiche di vicinato, Oliver Várhelyi, ha parlato di «difficili circostanze del Paese». Nel mese di luglio 2023, la commissaria Ue agli Affari interni, Ylva Johansson, ha ribadito che «la Libia rimane una situazione molto complicata» e che ogni azione violenta da parte della guardia costiera libica «è inaccettabile».Nel marzo 2023, le Nazioni unite hanno pubblicato un rapporto che documenta violazioni dei diritti umani, affermando che «ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù nei centri di detenzione ufficiali». Tutto questo, tra l’altro, smentisce quanto affermato nel processo Open Arms dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, secondo cui i migranti non subirebbero torture nei centri governativi. Il rapporto Onu sottolinea, inoltre, che il governo di unità nazionale di Tripoli ha imposto forti restrizioni all’entrata nel Paese di organizzazioni umanitarie, così riducendo il sostegno a persone vulnerabili, nonché la visibilità di ciò che accade.Nel giugno 2023, la missione di supporto dell’Onu in Libia (Unsmil) ha espresso «preoccupazione per gli arresti arbitrari di massa di migranti e richiedenti asilo», tra cui donne incinte e bambini, con «un inquietante aumento dell’incitamento all’odio e del discorso razzista». L’Unsmil ha invitato «le autorità libiche a fermare queste azioni e a trattare i migranti con dignità e umanità in linea con i loro obblighi internazionali», nonché a garantire l’accesso alle agenzie dell’Onu e alle organizzazioni umanitarie.Insomma, la narrazione secondo cui la Libia, a differenza del 2018, oggi sarebbe un paese sicuro non regge. Contano le verifiche in concreto, come quelle risultanti dai rapporti citati. Ora lo dice anche la Cassazione.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediVitalba AzzollinigiuristaGiurista, lavora presso un'Autorità indipendente. È autrice di articoli e paper in materia giuridica, nonché di contributi a libri per IBL. A titolo personale.

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