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Basilicata, ultimo test prima delle europee - Tiscali Notizie

25 aprile, Lollobrigida attacca la sinistra: "Secondo loro non devi esistere"Calo della natalità, Lollobrigida shock: "No alla sostituzione etnica"Guerra in Ucraina, oggi a Roma la conferenza sulla ricostruzione

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Oggi si vota in Basilicata: affluenza, candidati e come si vota - Tiscali NotizieQuesto è l’ottavo numero di Areale,Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock la newsletter settimanale sull'ecologia, l'ambiente e la concreta possibilità di salvare il mondo. Questa settimana parliamo di plastica, fiumi, finanza creativa con gli alberi, lupi, del Passaggio a nord-ovest e di incendi in Siberia. Per iscrivervi gratuitamente alla newsletter Areale, in arrivo ogni sabato mattina, potete cliccare qui. Care lettrici e cari lettori di Domani, questo è l’ottavo numero di Areale, la newsletter settimanale sull'ecologia, l'ambiente e la concreta possibilità di salvare il mondo (iscriviti qui). Iniziamo con una mappa. Le mappe possono essere deprimenti o sorprendenti (questa appartiene alla prima categoria, ma non importa, non ora). I cambiamenti climatici e la crisi ecologica vengono spesso raccontati sulla linea del tempo: cosa succederà nel 2030? Nel 2050? E nel 2100? L'abbiamo costruito come un problema temporale, un fatto di eredità e discendenti, una lotta tra ansiosi e procrastinatori, l'abbiamo insomma affidato alla percezione del tempo, che è fragile, precaria e personale. Sarebbe utile tornare a inquadrarlo come un problema spaziale, di cosa succede dove e ora. Le mappe sono uno strumento fondamentale nel racconto della crisi climatica, perché lo riportano al presente. È più facile distogliere lo sguardo da una timeline che da una mappa. Nel ciclo forsennato di notizie e percezioni, la plastica nel mare sembra a volte un guaio di ieri, un pesce medio nella catena alimentare delle preoccupazioni. All'inizio di Seaspiracy, il regista/protagonista Ali Tabrizi si mostra come un ingenuo raccoglitore di plastica sulle spiagge che apre gli occhi su problemi più grandi. Il fatto che la questione sembri diventata meno attuale non vuol dire che non sia ancora tremendamente urgente. La mappa è questa, è stata diffusa dal progetto Ocean Cleanup, la potete consultare in versione interattiva qui, è uno strumento preoccupante e affascinante da esplorare, fa quello che fanno le buone mappe: offre una prospettiva, rispondendo alla domanda «Come ci entra in mare tutta quella plastica?». Dalla terraferma, principalmente, attraverso i fiumi. I punti rossi sono i bacini di 1.656 fiumi del mondo: sono quelli che trasportano l'80 per cento della plastica che finisce ogni anno negli oceani, stimata tra 0,8 e 2,7 milioni di tonnellate. L'1 per cento dei punti d'ingresso porta l'80 per cento dell'inquinamento da plastica. La mappa è stata sviluppata con un modello che combina big data, informazioni geografiche e osservazione sul campo. Per ogni fiume è stato calcolato il quantitativo di emissioni di plastica annuale, è una ricerca fondamentale, perché offre strumenti di mitigazione globale più precisi e permette di capire quali sono i punti più a rischio. Non c'era mai stata una fotografia così ad alta definizione della questione, è l'evoluzione di un modello precedente, che metteva il focus solo su dieci grandi fiumi. Non sono necessariamente i fiumi più lunghi quelli più tossici, al contrario, quelli corti sono più a rischio, con una distanza breve tra la fonte di inquinamento (tipicamente: una città) alla foce, come il fiume Ciliwung, in Indonesia, 119 chilometri, 308 tonnellate di plastica all'anno. Pesca coi lupi C'è un altro motivo per cui le mappe sono preziose nel racconto dei cambiamenti climatici, che riguarda la solita discussione su ansia, ottimismo, speranza, giornalismo terrificante contro giornalismo rassicurante. Il punto è che non possiamo prendere sul personale la questione di salvare il mondo se non ci ricordiamo quanto è interessante, affascinante, intrigante il mondo. Le mappe sono un ottimo modo per ricordarlo. Un altro modo è il progetto di ricerca sui lupi dell'Università del Minnesota. Si chiama Voyageurs Wolf Project e serve a capire cosa fanno i giovani lupi quando nessuno li vede: come vivono, come cacciano, come passano il tempo? I ricercatori hanno installato delle microcamere su un collare non intrusivo, il risultato sarà un filmato sulla loro prima estate da lupi nella foresta. Queste sono le prime immagini diffuse dal progetto, sono di una bellezza strabiliante. Le immagini mostrano per esempio qualcosa che si è scoperto solo di recente: i lupi pescano, in questo caso con una tecnica ingegnosa: si piazzano vicino alla diga creata dai castori e aspettano. Il dispositivo registra trenta secondi alla volta per ogni ora di luce del giorno, a un certo punto del progetto il collare è programmato per cadere, i ricercatori lo rintracciano col gps e recuperano il filmato. A proposito, in Italia è in corso il primo monitoraggio nazionale sui lupi da quando la specie è protetta, nel 1971, col decreto Natali. Da allora le evidenze di un ripopolamento si sono moltiplicate, nessuno sa però con esattezza quanti siano (ne sono stimati tra 1.500 e 2.000). Il monitoraggio organizzato da Ispra ha coinvolto migliaia di esperti e un network di parchi e associazioni. Si è appena conclusa la prima fase, i risultati arriveranno all'inizio del 2022. I lupi italiani sono ancora minacciati, dagli incidenti, dai bracconieri, dalla genetica e dall'ibridazione con i cani, ma quella del loro ritorno è una spettacolare storia di ripresa ecologica ed è così che dovremmo trattarla. Finanza creativa con gli alberi Dopo la pandemia, che è stata un'esperienza statica e terrestre, torneremo a volare, a prendere l'aereo. Cosa dovremo pensare quando una compagnia aerea ci dirà che il nostro volo è carbon neutral? Cosa ci stanno vendendo? Un'inchiesta del Guardian e di Greenpeace ha svelato le falle del sistema di offsetting delle compagnie aeree. Il principio è semplice: compenso le emissioni di Co2 del volo proteggendo alberi che ne assorbano una quantità equivalente, lo scambio avviene attraverso un sistema di crediti. Dell'opacità di quel sistema e delle illusioni delle soluzioni basate sulla natura per ridurre le emissioni abbiamo parlato spesso su Areale e su Domani, l'inchiesta ha analizzato il programma di Verra, una no profit americana che amministra uno degli standard di crediti più usati. Solo che molti di quelli venduti erano crediti che non corrispondevano alla realtà, sia in termini di carbonio assorbito che di distruzione evitata. Finanza creativa a mezzo alberi. C'è da dire che il meccanismo in sé ha un valore: porta soldi in comunità rurali e forestali che ne sono spesso prive e che sarebbero in grave difficoltà se il sistema saltasse nella sua interezza. Il problema è la sua mancanza di trasparenza, le scorciatoie contabili e il greenwashing di attività inquinanti. È per altro la stessa accusa che questa settimana hanno fatto Re:Common e Greenpeace a Eni, che usa lo schema REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation in developing countries) per compensare le emissioni causate dalle sue attività estrattive, acquistando crediti da progetti di conservazione delle foreste con problemi simili a quelli sottolineati dal Guardian. A valle di questo processo ci sono cittadini e consumatori, sempre più in difficoltà nel capire cosa significhi davvero carbon neutral quando prenotano un volo o valutano un'azienda. La transizione ecologica ha bisogno di tante cose, tra queste c'è la fiducia, e l'applicazione di meccanismi e opacità finanziarie alla natura rischia seriamente di mettere in crisi la fiducia che serve a sostenere gli sforzi individuali e collettivi. Se non possiamo fidarci della neutralità climatica come concetto e calcolo, come possiamo tenerla in cima all'agenda, ai comportamenti, alle scelte di consumo e di voto? A proposito, bisogna ancora parlare di Jair Bolsonaro. Nella grande narrazione della crisi climatica è solidamente agganciato dalla parte del torto, ogni storia ha bisogno di villain, il presidente del Brasile ha tutto per esserlo. Quando ha parlato al Leaders Summit on Climate è stato spiazzante sentirlo parlare di deforestazione zero in Amazzonia, veniva quasi voglia di credergli, ma l'ecologia non è di solito un terreno di grandi redenzioni. ll giorno dopo il summit ha tagliato il budget per l'ambiente del 24 per cento rispetto all'anno precedente. Ma c'è soprattutto un grande problema e torniamo ai discorsi su quanto la contabilità legata all'ambiente sia scivolosa, perché ci sono due modi per tagliare la deforestazione illegale. Il primo è tagliarla davvero. Il secondo è manomettere la definizione di deforestazione illegale, che è la strada scelta da Bolsonaro. La percentuale di terra che si può “legalizzare” dopo l'occupazione, e quindi destinare a usi diversi da quelli naturali, è cresciuta da 100 a 2.500 ettari in pochi anni. Per altro la parcella vale per persona e non per nucleo familiare, e quindi il condono può essere esteso per ogni membro. Nuovi disegni di legge sono allo studio per rendere ancora più facile il processo di land grabbing. Un'altra pesca è possibile Torniamo a Seaspiracy, lo cito due volte in questa newsletter perché il documentario (visibile su Netflix) è stato un pezzo importante della conversazione ecologica del 2021, un ruolo non necessariamente positivo, pieno di forzature di tono, linguaggio e scienza. Ne parla anche Silvia Lazzaris in un suo pezzo per Domani sulla sostenibilità della pesca nel Mediterraneo. «Nonostante il documentario abbia sbagliato a dipingere la situazione globale, si può dire che abbia ritratto in modo relativamente accurato la situazione drammatica in cui si trova il Mediterraneo. Infatti, secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dalla Commissione Europea, l’85 per cento degli stock ittici europei sarebbe pescato in condizioni di insostenibilità, e il 64 per cento sarebbe sovrasfruttato al punto da rischiare il collasso nei prossimi anni». Cerchiamo però anche storie positive dal mondo e ce n'è una in Africa. La racconta African Arguments ed è ambientata nel grande Lago Malawi. La pesca ha messo in crisi gli stock ittici anche qui, ma non nelle acque intorno all'isola di Mbenje, che sono ancora abbondanti di pesci, e uno dei motivi è il rispetto delle tradizioni ancestrali di pesca nell'area, compresa la gestione comunitaria delle risorse e la chiusura totale dell'area ai pescatori da dicembre ad aprile. Il modello non è perfetto, nessun modello lo è, ma è la prova che un'altra pesca è possibile. Un Artico sempre più navigabile La crisi climatica cambia la geografia e le possibilità dell'Artico, ne avevamo parlato già in Areale, discutendo le nuove prospettive russe alla luce della crisi dell'incaglio della Ever Given a Suez. Le cose cambiano anche nel leggendario passaggio a nord-ovest, via artica un tempo impenetrabile (se avete visto la serie Tv The Terror sapete di cosa parlo), oggi sempre più navigabile. Questa mappa viene da un rapporto dell'Arctic Council su come si sta evolvendo il traffico marittimo lassù. Dal 2013 al 2019 il numero di navi è cresciuto del 44 per cento, da 112 a 160, le miglia nautiche sono passate da 2.980 a 6.710. Circolano un po' più di navi e lo fanno molto più a lungo. A differenza di quella russa che tanto solletica Putin, il passaggio a nord-ovest non è una vera e propria rotta quanto una serie di canali e pertugi tra la costa canadese e le 36mila isole dell'Artico. Il primo a passare fu l'esploratore norvegese Roald Amundsen, tra il 1903 e il 1906. Nel 2016 c'è stato il primo passaggio turistico (con cabine da 20mila euro), il livello del ghiaccio di quest'anno è stato il secondo più basso di sempre. Il guaio degli incendi perenni Parlando della vita a nord, l'estate si avvicina e la Siberia è tornata a bruciare. Gli incendi record di un anno fa hanno rilasciato nell'atmosfera l'equivalente annuale delle emissioni di un grande paese europeo, è maggio e le fiamme sono tornate sulla terra siberiana. Il satellite Copernicus Sentinel-2 ha diffuso queste immagini preoccupanti di incendi nella zona di Oymyakon, che per altro è uno dei luoghi più freddi della Terra. C'è anche un altro fenomeno in Siberia, più sinistro: gli incendi nelle torbiere, li chiamano incendi zombie, perché non si spengono mai, durante l'inverno continuano sotto terra, bruciando il carbone nel suolo, quando arriva l'estate raggiungono di nuovo la superficie e le dimensioni ragguardevoli che conosciamo. Sui media e nei social locali girano questi filmati di persone che spalano nella neve e sotto metri di neve trovano il fumo di questi incendi zombie. D'altra parte una ricerca del 2020 aveva stabilito che l'ondata di calore della scorsa estate sarebbe stata impossibile senza il cambiamento climatico e che le attività umane hanno 600 volte più probabilità di impattare sul clima in Siberia che altrove. Siete arrivati alla fine Areale, grazie per aver letto fin qui. Se avete critiche, commenti, speranze, immagini di lupi o aneddoti su Amundsen, scrivete a [email protected] Buon sabato! Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Nato nell’estate 1982 a Napoli. Giornalista professionista freelance dal 2009, ha frequentato il master in giornalismo dell’IFG – Carlo de Martino. Vive a Milano dal 2012.

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