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Il Sabato nella vita di Benedetto XVI, Papa «del coraggio e della fede»

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VIDEO. Anche Varese ha la sua ruota panoramica: alla Schiranna si potrà ammirare un panorama da cartolina - ilBustese.itUn gruppo internazionale di studiosi ha messo in piedi un progetto di ricerca,ETF World Protests, che ha monitorato le principali mobilitazioni dal 2006 al 2020, in più di 100 paesi del mondo: il database ne raccoglie più di 2.800, dalla primavera araba ai gilet gialli La stagione più calda storicamente è l’autunno: non dal punto di vista climatico, ma sociale. Le proteste sessantottine del movimento giovanile e, l’anno successivo, la grande mobilitazione operaia portarono in Italia allo statuto dei lavoratori del 1970. Altre rivendicazioni più ampie, come la fine dell’imperialismo statunitense allora incarnato dalla guerra in Vietnam, non hanno invece ottenuto vittorie altrettanto concrete.Simili esiti sono in linea con quanto trovato da diversi studi scientifici che si sono occupati di misurare e comprendere l’efficacia dei movimenti di dissenso: le contestazioni mirate e circoscritte sarebbero infatti più efficaci di quelle che vanno contro un intero sistema.Gli anni Sessanta del secolo scorso vengono ricordati come uno dei periodi più agitati della storia recente, ma se si guarda ai dati emerge un quadro diverso. Un gruppo internazionale di studiosi ha messo in piedi un progetto di ricerca, World Protests, che ha monitorato le principali mobilitazioni dal 2006 al 2020, in più di 100 paesi del mondo: il database ne raccoglie più di 2.800, dalla primavera araba ai gilet gialli, dall’avversione all’austerity ai disordini conseguenti alla pandemia da Covid-19, passando per MeToo, il riconoscimento dei diritti civili e la necessità dell’azione climatica.Il ritorno dell’attivismoLa prima tendenza riscontrata è che quando è terminato lo studio, nel 2020, le proteste annuali risultavano il triplo di quelle registrate nel 2006. «Quest’aumento di attivismo ha eclissato persino i turbolenti anni Sessanta», ha dichiarato a Nature Lisa Mueller, che studia i movimenti sociali al Macalester College di Saint Paul, in Minnesota. «Viviamo davvero in un’èra di eccezionali proteste globali».Il primo balzo si è avuto in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2008, con le riforme per rimettere in ordine i conti pubblici: spesso sono state vissute dalla società come una mancanza di democrazia reale. Dopo il 2016 i dati mostrano un altro aumento del numero di contestazioni globali, che però si fanno più generiche nelle rivendicazioni: scarsa fiducia nei governi e preoccupazioni per la condizione economica sono state le tematiche più rappresentate, seguite dalle battaglie per i diritti civili, mentre sono rimaste fuori dal podio le richieste di giustizia globale e ambientale, che hanno raggiunto un picco nel 2018 e 2019, per poi calare leggermente.Nella maggior parte dei casi ci si è mobilitati contro i governi nazionali, soprattutto nei paesi a medio e alto reddito, molto meno in quelli a basso reddito. Non sono scesi in strada solo attivisti, sindacati e associazioni non governative, ma soprattutto membri della classe media, donne, studenti, ma anche pensionati, gruppi etnici e popolazioni indigene.«La precedente solidarietà degli esponenti della classe media con le élite è stata rimpiazzata in molti paesi da una mancanza di fiducia e dalla consapevolezza che il sistema economico dominante non produce effetti positivi per loro» scrivono gli autori della ricerca, riassunta in un libro pubblicato nel 2022 (World Protests: A study of key protest issues in the 21st century), edito da Palgrave MacMillan. CulturaDa vent’anni la rabbia è lo spirito del tempo e ha sostituito la lotta politicaI temi Negli ultimi anni non è cresciuto solo il numero complessivo delle manifestazioni, ma anche la loro massa. 52 eventi hanno superato il milione di partecipanti, mentre il singolo evento che ha mobilitato più persone è stato registrato in India, dove si stima 250 milioni di persone nel 2020 abbiano scioperato contro una riforma agricola del governo, che ha coinciso anche con i primi lockdown nazionali.La maggior parte di queste grandi contestazioni hanno riguardato tematiche progressiste, come migliori condizioni di lavoro, più diritti, meno disuguaglianze, più giustizia climatica, ma diverse sono state guidate anche dalla destra estrema, come il movimento QAnon negli Stati Uniti e nel mondo, così come le manifestazioni di ostilità nei confronti di minoranze religiose o etniche, contro migranti o rifugiati.Il 42 per cento delle circa 2.800 proteste monitorate da World Protests ha ottenuto almeno dei risultati parziali, riportano i ricercatori, che hanno anche trovato che alcuni fattori risultano più determinanti di altri per ottenere quanto rivendicato. Hanno più probabilità di successo non solo le proteste di grandi dimensioni, ma anche quelle che adottano metodi non violenti e che sono circoscritte a obiettivi specifici. Se a questi si aggiunge la repressione, ad esempio della polizia, il supporto sociale ai manifestanti raggiunge livelli ancora maggiori.Ad aprile di quest’anno la presidente della Columbia University a New York ha ordinato lo sfollamento del campus occupato dalle tende di chi manifestava contro le operazioni militari di Israele a Gaza. L’azione dimostrativa era non violenta e la repressione della polizia ha innescato una copertura mediatica che ha moltiplicato le espressioni a supporto della popolazione palestinese in tutto il mondo.Meno efficaci risulterebbero le azioni che tentano di tenere insieme troppi temi, dalla disuguaglianza alla finanza, dall’oppressione al cambiamento climatico, come per esempio il movimento di occupazione (Occupy) del 2011. L’assenza di una prova però non è prova di un’assenza: anche se risultati concreti non sono immediatamente quantificabili da uno studio scientifico, non è detto che queste vaste recriminazioni non sortiscano un effetto sulla società nel lungo termine.Correlazioni bizzarreOmar Wasow, un ricercatore di scienze politiche dell’università della California, Berkeley, ha invece trovato una curiosa ma significativa correlazione tra gli effetti delle proteste e un agente atmosferico. In caso di pioggia, sia sa, meno persone scendono in strada.Wasow ha incrociato i dati sulle precipitazioni di aprile 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King, e i risultati elettorali per le presidenziali di quell’anno in diverse aree degli Stati Uniti. Lì dove aveva piovuto di meno si erano registrate le proteste più numerose, ma anche più violente, che secondo Wasow avrebbero spostato sulla sponda repubblicana tra l’1,5 per cento e il 7,9 per cento dei voti degli elettori, contribuendo all’elezione di Richard Nixon.Secondo i risultati di un altro studio invece, la pioggia ha generato un esito opposto sulle proteste di Black Lives Matter nel 2020, in seguito all’uccisione di George Floyd. Lì dove ne è scesa di più, le proteste sono state di meno, per lo più non violente, e associate a uno spostamento di voti verso i Democratici stimato tra l’1,2 per cento e l’1,8 per cento. MondoLe proteste contro i regimi crescono, la loro capacità di cambiare le cose noMattia FerraresiLe dimostrazioni climaticheEsiste poi un’altra categoria di dimostrazioni, non violente ma ugualmente dirompenti. È il caso del lancio della zuppa di pomodoro sui Girasoli di Van Gogh, ad opera di un’attivista di Just Stop Oil nel 2022, che chiedeva lo stop dei sussidi ai combustibili fossili. In questi casi, secondo diversi studi, vale il principio «sono d’accordo con la tua causa, ma non condivido i tuoi metodi».Si chiama effetto del fianco radicale (radical flank effect) e in altre parole, buona parte della società arriva a vedere più di buon occhio azioni moderate a sostegno di una causa giunta all’attenzione del grande pubblico tramite gesti spiazzanti.Certamente alcuni non faranno altro che detestare gli attivisti di Extinction Rebellion e di Ultima Generazione che si siedono in strada e bloccano il traffico, ma il loro sacrificio avrà probabilmente contribuito a sensibilizzare la società e predisporla all’ascolto. Un recente sondaggio condotto dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni unite (Undp), condotto su 73mila persone da 77 paesi, ha trovato che più dell’80 per cento dei partecipanti vuole che i propri governi conducano azioni più decise a difesa del clima.Non sarà tutto merito degli attivisti ambientalisti, ma anche a loro va riconosciuta una parte di questo dato, che è notevole, e che probabilmente non viene adeguatamente rispecchiato dalla rappresentanza politica. «La maggior parte delle richieste sono in pieno accordo con i diritti umani e gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu», scrivono gli autori di World Protests. «I leader e i decisori politici favoriranno solo ulteriori disordini se non riusciranno ad ascoltare e agire a riguardo delle principali richieste dei manifestanti». CulturaCrisi climatica, ecco perché attaccare le opere d’arte funzionaTiziano Scarpa© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFrancesco Suman

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