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Meteo, nuovi cambiamenti a luglio: estate ancora in pausaSono coloro che nell’esercizio della loro funzione danno voce alle norme e fanno vivere il diritto. Se la polizia abusa del diritto è l’ordinamento che nega sé stesso. L’Italia a differenza di altri 20 Stati Membri dell’Ue non ha provveduto alla approvazione di una legge che obblighi il personale di polizia a portare un numero identificativo. I noti e recenti fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno fatto riemergere questioni da tempo irrisolte,criptovalute proprio quando si approssima il ventennale del G8 di Genova. Per i fatti del G8 di Genova le sentenze definitive della Cassazione (n. 38085/2012 e n.37088/2013) e quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo (caso Cestaro c/o Italia, 7/4/2015 e Blair ed altri c/o Italia, 26/10/2017) hanno sancito la “verità giudiziaria”, affermando che vi fu «La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». Oggi come allora si ritorna a discutere del ruolo delle autorità di polizia e degli anticorpi che uno stato di diritto deve possedere per tutelare il rispetto dei diritti fondamentali. Ebbene, l’esistenza del diritto, e quindi dell’ordine della società e di quella uguaglianza tra i cittadini, dipende, molto più che dalla approvazione di norme da parte degli organi dotati di competenza normativa, dal fatto che le leggi emanate vengono assunte a guida del comportamento. Lo stato di diritto Il diritto dunque esiste in quanto motiva i comportamenti. Ma i comportamenti di chi? Certamente è assolutamente fisiologico che non tutti i cittadini assumano le norme quale guida dei propri comportamenti, in caso contrario ci troveremmo di fronte ad un regime totalitario, ossia quei regimi che vogliono controllare, oltreché ogni tipo di relazione interpersonale, anche, attraverso la propaganda, le menti e i cuori degli individui. Ciò che ai cittadini è richiesto è solo di non infrangere le norme. La violazione è quella patologia sociale per cui esiste il diritto, come la malattia per la medicina. Alla medicina non si chiede di eliminare le malattie dal mondo: le malattie ci saranno sempre. Alla medicina si chiede di prevenirle e di curarle. Così al diritto non si chiede di eliminare gli illeciti dal corpo sociale, ma di prevenirli e di reprimerli. Ma “il diritto” che ha il compito di prevenire e reprimere, chi è? L’espressione “il diritto”, così personificata, sta a significare quelle persone, cioè quei cittadini i quali, come carattere distintivo da tutti gli altri cittadini, nell’esercizio della loro funzione, danno voce alle norme (perché le norme motivano le loro scelte) e fanno così vivere il diritto. Ad esempio gli appartenenti alle forze dell’ordine ed alla magistratura, nell’esercizio delle loro funzioni, reagiscono proprio a comportamenti che integrano violazioni di norme giuridiche. La loro funzione è dunque estremamente più “delicata” di quella degli altri cittadini. Il ruolo delle forze dell’ordine Delicatissima è quella dei membri delle forze dell’ordine. Perché ad essi, in quanto cittadini come gli altri, è richiesto non solo di non violare le leggi; ma ad essi, nell’esercizio delle loro funzioni, è richiesto qualche cosa di diverso, qualcosa di più. A loro è richiesto di applicare, cioè di assumere a guida dei comportamenti, di far parlare con le loro voci, quelle norme che integrano la funzione essenziale, primitiva direi, del diritto: la reazione, mediante uso legittimo e regolato della forza, all’uso della forza da parte dei privati cittadini (uso questo sempre illegittimo, salvo casi eccezionalissimi). Quindi se, nel reagire, essi abusano del loro potere, compiono un illecito che è, materialmente, un atto dello stesso tipo di quello cui reagiscono (la manganellata di un poliziotto, la bastonata di un dimostrante fanno ugualmente male), ma che è giuridicamente ben diverso. Non si tratta solo di un comportamento antisociale, e della violazione di una norma, ma dell’ordinamento che nega sè stesso. In altri termini il rispetto da parte delle forze dell’ordine delle proprie norme di comportamento non è solo la violazione di una norma, così come per qualsiasi altro cittadino, ma è la condizione del rispetto che tutti i cittadini debbono alla polizia. Allora la sottoposizione di un membro delle forze dell’ordine alle verifiche previste dall’ordinamento in merito alla correttezza del suo operato non può venire interpretata come una manifestazione di sfiducia dei confronti dell’istituzione. Al contrario proprio per mantenere salda la fiducia nell’istituzione ogni ombra del sospetto di connivenze interne con atti lesivi della dignità umana vanno al più presto diradate. Il che è nell’interesse dell’istituzione. La rieducazione e il carcere Allora ritornando al caso concreto dei fatti di Santa Maria Capua Vetere, se l’azione viene posta in essere dalle forze di polizia penitenziaria ciò che viene lesa è anche quella finalità di rieducazione della pena cristallizzata nell’art. 27 co 3 della Costituzione e calpestata, come ci mostra quel video di 6 minuti ed 11 secondi girato all’interno del carcere campano. Il carcere ben lungi dall’essere un luogo rieducativo, che assicuri ad ogni detenuto il benessere e la salute ed una condizione compatibile con la dignità umana, nella scena del crimine di Santa Maria Capua Vetere diviene un carcere anti-educativo dove i principi fondamentali non vengono rispettati, diviene un luogo dove lo Stato antepone alle regole della legalità i codici propri della devianza. Di certo i detenuti che nei filmati appaiono quali destinatari delle nauseanti prevaricazioni delle autorità difficilmente usciranno dagli istituti migliori di come sono entrati. Ed anche sotto questo profilo la violenza dell’Istituzione appare un ossimoro, perché lo Stato non può e non deve produrre esempi di devianza. Come altri hanno già scritto, fra l’altro, nel caso in oggetto la presunzione di non colpevolezza può valere in via residuale solo quanto alla certa individuazione degli autori della condotta. Infatti, già in diversi casi, tra cui quello più noto del G8 di Genova nel 2001, nel corso di indagini tese a verificare le responsabilità individuali da parte della magistratura è risultato particolarmente difficile risalire all’identificazione degli agenti delle forze di polizia, molti fra gli appartenenti alle forze di polizia sono rimasti impuniti, in parte per effetto della prescrizione e in parte perché non fu possibile risalire all’identità di tutti gli agenti che presero parte alle violazioni dei diritti umani. L’identificativo Per supplire a tali difficoltà già nel 2012 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea (2010-2011) e con la raccomandazione n. 192, ha sollecitato gli Stati Membri “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. Nel 2016 anche il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite si è espresso al proposito ed il Relatore speciale per il diritto alla libertà di assemblea pacifica e di associazione, Maina Kiai, insieme al Relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, Christof Heyns, hanno raccomandato che «i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero». Diversi stati dell’Unione europea hanno dato seguito a questa richiesta: su 28, sono 20 gli Stati Membri che hanno adottato gli identificativi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna, ma non l’Italia. Infatti, diversi sono i disegni di legge presentati nelle passate legislature (ddl S.803 del 6 giugno 2013; ddl S.1307 del 13 febbraio 2014; ddl S.133726 febbraio 2014; ddl S.1412 del 25 marzo 2014) gli emendamenti ad altre proposte di legge ( al ddl1079), che prevedevano la dotazione agli agenti delle forze di polizia di un codice identificativo, ai fini di una loro riconoscibilità, ma ogni tentativo è risultato vano. Credere e sostenere oggi l’introduzione di norme che obblighino la dotazione agli agenti delle forze di polizia di un codice identificativo significa fare un passo importante nel dotare l’ordinamento di quegli anticorpi che possano prevenire e reprimere la patologia e tenere salda la fiducia nell’istituzione, significa permettere al diritto di continuare a vivere senza negare se stesso. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediGiovanni Guarini Avvocato cassazionista, le relazioni del mondo del lavoro e la tutela dei diritti fondamentali sono spesso al centro dei suoi processi. E’ autore di articoli e saggi, collabora con riviste di informazione giuridica ed è curatore del blog Postosicuro www.postosicuro.info
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