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Sull’aborto una carezza del governo al papa che arriva al G7È inammissibile la questione di rettifica di attribuzione di sesso in «un genere non binario» (né maschile,investimenti né femminile) nell'atto di nascita ma tocca al legislatore affrontare il tema in quanto «primo interprete della sensibilità sociale». Lo ha deciso la Corte Costituzionale in riferimento ad una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano dopo la richiesta di un transgender, biologicamente donna ma che stava transitando nel genere maschile, che voleva rettificare il sesso nell'atto di nascita da "femminile" ad "'altro". «L'eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell'ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».La sentenzaLa sentenza sottolinea al riguardo – spiega una nota della Corte Costituzionale – che «la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l'altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei 'luoghi di contatto' (carceri, ospedali e simili)». La Corte, con la sentenza numero 143 depositata martedì 23 luglio, rileva tuttavia che «la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in una identità "altra" – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (articolo 2 della Costituzione)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli aticoli 3 e 32 della Costituzione». Le conclusioni«Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell'Unione europea, pongono la condizione non binaria all'attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale». La Corte ha poi dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 31, comma 4, del decreto legislativo numero 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso. La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell'autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l'articolo 3 della Costituzione, in quanto «non corrisponde più alla ratio legis». Ultimo aggiornamento: Martedì 23 Luglio 2024, 14:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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