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Raid Israele, Hezbollah risponde con lancio razzi: ultime news oggi 9 luglioSelfie di gruppo di giovani alla Gmg di Lisbona del 2023 - . COMMENTA E CONDIVIDI La gestazione di quelli che oggi riconosciamo come “missionari digitali” o “influencer cattolici” (ma la distinzione è importante,investimenti come vedremo) è durata diversi anni, gli anni dei pionieri: fedeli laici, religiosi e religiose, presbìteri (qualcuno nel frattempo è diventato vescovo, come lo statunitense Robert Barron) che sperimentavano la possibilità di annunciare il Vangelo, catechizzare, ascoltare e accompagnare i fratelli- follower con creatività nei linguaggi e con le tecniche proprie dell’ambiente digitale. La maggioranza di loro è nata di fatto nei mesi sospesi del lockdown imposto dal Covid. In quel periodo l’impossibilità di riunire fisicamente le comunità parrocchiali non solo ha imposto la trasmissione in streaming della Messa, risposta solo provvisoria a un’emergenza, ma ha anche suggerito che i vari momenti di formazione, tipici della vita comunitaria e rivolti perlopiù ai ragazzi e ai giovani, potessero svolgersi e persino arricchirsi utilizzando i social media: ciò di cui si sono incaricati spesso coloro che, prima, già lo facevano “in presenza” (in Italia il caso tipico è quello di don Alberto Ravagnani). Un anno fa alla Gmg di Lisbona il raduno degli influencer cattolici, occasione in cui si è sperimentata la crescita di un movimento sempre più importante per la Chiesa​Il “battesimo” – nel senso di un primo riconoscimento ecclesiale – è stato impartito ai missionari digitali, inequivocabilmente, dal Sinodo 2021-2024. La scelta di individuare questi soggetti per interpellare sui temi della consultazione sinodale persone – segnatamente appartenenti alle giovani generazioni – che con le modalità tradizionali non era stato possibile convocare si è concretizzata nel corso del 2022 nell’iniziativa internazionale “La Iglesia te Escucha” (La Chiesa ti ascolta), coordinata congiuntamente dalla Segreteria generale del Sinodo e dal Dicastero per la Comunicazione. I positivi risultati di questa mobilitazione si sono tradotti nella partecipazione dei più rappresentativi missionari digitali (come l’ispanofona suor Xyskia Valladares) alla XVI Assemblea sinodale, e parallelamente in un avallo che, attraverso i lavori assembleari, è arrivato sino alla “Relazione di sintesi”, nella quale (parte III, n. 17) si afferma che «la cultura digitale» è «una dimensione cruciale della testimonianza della Chiesa nella cultura contemporanea», e si propone che «le Chiese offrano riconoscimento, formazione e accompagnamento ai missionari digitali già operanti, facilitando anche l’incontro tra di loro». Dunque la comunità cristiana è oggi chiamata a valorizzare il loro servizio, ma anche a vigilare sulla sua effettiva ecclesialità, con tutto ciò che questo comporta. Nell’architettura ideata dal Papa e dalla Segreteria del Sinodo per passare dalla prima alla seconda sessione, il tema « La missione nell’ambiente digitale» è stato affidato a uno dei dieci Gruppi di studio coordinati a livello interdicasteriale, che approfondiranno autonomamente alcune delle questioni emerse in Sinodo. L’articolo “Missionari nell’ambiente digitale: pensare la sinodalità al tempo delle reti” firmato da padre Bruno Franguelli e da Moisés Sbardellotto sull’ultimo quaderno de “La Civiltà Cattolica” (in uscita domani) si colloca nel contesto di questa riflessione. Frattanto il gruppo de “La Iglesia te Escucha” organizza attività, in particolare sull’omonimo account Instagram, che consolidano la condivisione e il confronto tra i suoi membri. Inoltre si registrano iniziative a livello di singoli Paesi: in Brasile, dove la missione digitale cattolica è condizionata da un ambiente sociale, politico e religioso fortemente polarizzato, è stato realizzato uno studio critico su «effetti e prospettive» degli «influencer digitali cattolici»; in Francia il quotidiano La Croix racconta l’ecumenica “Notte degli influencer cristiani” ma anche cita le ricerche che i sociologi della religione stanno dedicando al fenomeno, consapevoli cella debolezza dei legami tra questi cristiani e l’istituzione ecclesiale; la Cei chiama la porzione italofona de “La Chiesa ti ascolta” a partecipare alla 50esima Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Trieste a inizio luglio, « per incrociare le storie che lì si raccontavano e diffonderle nel continente digitale», come scrive WeCa sul suo sito. L'interesse delle istituzioni ecclesiali per i missionari digitali è legato alla possibilità di avvicinare, tramite loro, quote di giovani che la pastorale ordinaria non riesce più a incontrare: «L’azione nel mondo digitale è contrassegnata da un’attenzione particolare al mondo giovanile », si legge anche nel documento della Segreteria generale del Sinodo che istituisce i Gruppi di studio, e ciò vale tanto per i destinatari quanto per i soggetti di tale missione, che sono spesso (ma non sempre) altrettanto giovani. Ricorre del resto proprio in questi giorni l’anniversario del primo “Festival degli influencer cattolici”, che si è svolto a Lisbona il 3 agosto 2023, nel contesto della Gmg iniziata il 1° agosto di un anno fa. Queste figure quasi sempre giovani offrono risposte a domande spesso elementari su Dio, la fede, la Chiesa, sopperendo a una formazione di base che molti non hanno ricevuto La comunità cristiana è chiamata a valorizzare il loro servizio. E a vigilare sulla sua ecclesialità ​Si potrebbe dire che l’oscillazione stessa, da Paese a Paese e anche da documento a documento, tra la qualifica di “missionario digitale” e quella di “influencer cattolico” rifletta questa attesa e questa preoccupazione. E in effetti l’espressione “sono un missionario digitale” appare più confacente alla generazione dei “boomer”, mentre sembrerebbe che dirsi “influencer cattolico” consenta di farsi immediatamente riconoscere dai “millennial”. Si aggiunga che nella prima delle due definizioni la componente religiosa è caricata sul sostantivo, mentre nella seconda è confinata all’aggettivo, il che la rende più attraente per i media generalisti e “laici”. Ma l’influencer è, come ho già sottolineato in altre sedi, un soggetto che, grazie alla sua credibilità, è in grado di influire sui comportamenti di chi lo segue, e che quasi sempre traduce questa virtù in una professione, onerosa e molto tecnicizzata, ma ben remunerata: una versione riveduta e assai corretta del testimonial pubblicitario. Se parlo di un “influencer cattolico” dovrò esplicitare molto chiaramente che la gratuità dell’annuncio non è inficiata da alcuna forma d’interesse, né personale né comunitario.Sto approfondendo la conoscenza con i missionari digitali attraverso una nuova rubrica, dal titolo omonimo, che “Avvenire” mi ha affidato a partire dallo scorso aprile, e che esce sul sito del nostro quotidiano ogni quindici giorni (con l’eccezione della pausa estiva in corso). Scelti per lo più tra i partecipanti a “La Chiesa ti ascolta”, sono in effetti giovani, anche se non giovanissimi. Le metriche dei loro account non misurano, naturalmente, in quale misura il messaggio religioso che comunicano si radica nei coetanei follower. Ed è possibile che, come ha consapevolmente affermato uno di loro, il sacerdote messicano Heriberto García Arias, quella dei missionari digitali non sia una vera e propria evangelizzazione, se mai una preparazione, un « primo annuncio». Il quale spesso prende la forma di risposte a domande anche elementari su Dio, la fede cristiana, la Chiesa che molti giovani non hanno mai ricevuto, ovvero le hanno dimenticate dal tempo della fanciullezza, come dimostra il profilo della francese suor Albertine Debacker. La mia impressione è che, per quanto i missionari digitali padroneggino le tecniche di presenza sui social media (spesso sono anche cantautori) e abbiano una sufficiente – quando non buona – alfabetizzazione religiosa, il segreto della loro popolarità risieda in un’innata capacità comunicativa (se parlassimo di televisione, potremmo dire che “bucano lo schermo”), messa al servizio dell’evangelizzazione e della catechesi. Ovvero in un dono – vogliamo dire un carisma? – che essi potrebbero mettere a frutto anche se i social media fossero ancora di là da venire.

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