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Coronavirus, Sileri: "Seconda ondata violenta in autunno? No"L'iniziativa di Domani,Capo Stratega di BlackRock Guglielmo Campanella Libération, Tagesspiegel, El Confidencial, Hvg, Gazeta Wyborcza, Delfi, Balkan Insight e n-ost vuole vitalizzare il dibattito pubblico e la democrazia europea. La trentasettesima puntata porta alla luce i segni dei vecchi conflitti sulle nostre società. La newsletter paneuropea esce ogni mercoledì ed è gratuita. Iscriviti Eccoci di nuovo insieme, Europa! Siamo alla trentasettesima edizione dello European Focus! Sono Anton Semyzhenko, il caporedattore di questa settimana, e scrivo da Kiev. «La guerra ti dà proprio la sensazione di vivere il momento», mi ha detto di recente un’esperta giornalista di guerra. «A dire il vero, non hai altra scelta. Soprattutto in prima linea, non puoi lasciarti andare nemmeno per due secondi». Aveva ragione anche riguardo alle persone nelle retrovie. È difficile e spesso inutile fare piani a lungo termine; la maggior parte delle persone che conosco sceglie quello che conta di più per loro, qui e ora. La domanda generica per un colloquio di lavoro è: «Come ti vedi tra cinque anni?». Questa domanda, oggi, in Ucraina è irrilevante. Non ha senso pensare così lontano. Se si parla non di piani o di speranze, ma di problemi futuri, allora in quel caso pensare lontano ahimé è più facile: i problemi resteranno lì ad attendere chi sopravvivrà. Sminare il terreno, guarire le ferite fisiche ed emotive, ricostruire città e villaggi, rimodellare l’economia... Si tratta di compiti per i prossimi decenni, come dimostra l’esperienza di altri paesi europei. In questa edizione condividiamo le prospettive spagnola, bosniaca, tedesca, francese e ucraina su come trattare le cicatrici che le guerre ci hanno lasciato. Anton Semyzhenko, caporedattore di questa settimana EuropaNove media creano un appuntamento settimanale per il dibattito europeoFrancesca De Benedetti TRENT'ANNI DOPO I GIOVANI SCAPPANO DA QUI Gli edifici danneggiati dalla guerra sono visibili ancora oggi a Sarajevo. Foto Pixabay SARAJEVO - A tre decenni dalla fine della guerra degli anni Novanta, la Bosnia-Erzegovina rimane fortemente divisa su base etnica, con gran parte della sua popolazione che soffre ancora i traumi della guerra. Prima di concludersi nel 1995 con l’Accordo di Dayton, la guerra tra serbi, bosniaci e croati in Bosnia ha causato oltre 101mila vittime. Alcune cicatrici sono evidenti, come gli edifici fatiscenti pieni di buchi di proiettile, mentre altre, come il trauma subito dalle persone, sono difficili da individuare a prima vista. La Bosnia deve ancora creare un database centralizzato di tutte le vittime di guerra o di coloro che soffrono di disturbo da stress post-traumatico. Secondo uno studio svolto nel 2020 dal ministero della Sanità del paese, oltre il 60 per cento della popolazione della sola capitale, Sarajevo, una città che ha passato gran parte della guerra sotto assedio, sotto le granate e il fuoco dei cecchini, soffre dei sintomi del disturbo da stress post-traumatico. Inoltre, secondo le autorità, nel paese ci sono ancora circa 8mila persone che vivono in case collettive. Il trattato di pace ha posto fine alla guerra, ma la società rimane fortemente divisa su base etnica. Il paese è organizzato in un governo nazionale multietnico, con diversi poteri devoluti a una Federazione di Bosnia ed Erzegovina a maggioranza bosniaca e croata, ulteriormente divisa in dieci cantoni, alla Repubblica Serba di Bosnia, un’entità dominata dai serbi, e a un piccolo distretto autonomo, il distretto di Brčko. Gli sforzi per introdurre alternative all’Accordo di Dayton non hanno mai avuto successo. E così, il governo della Bosnia è stato reso - a tutti i livelli - in gran parte inefficace, dal momento che ciascuna delle tre etnie ha ritirato fuori le proprie rimostranze e si è impedita a vicenda di realizzare le proprie mire volte ad aiutare il paese a progredire. Nel frattempo, i serbi della Bosnia hanno portato avanti i propri tentativi secessionisti a favore della Repubblica Serba di Bosnia. La frustrazione ha alimentato un esodo di giovani, e si stima che siano in decine di migliaia a lasciare il paese ogni anno. E per quanto riguarda i giovani che rimangono, l’Osce ha riferito che le scuole segregate, dove gli alunni imparano a offendere quelli di etnie diverse, costituiscono ancora un problema impellente. Siniša-Jakov Marusic scrive per Balkan Insight e si occupa di giustizia transizionale SENZA LA MEMORIA, LA SPAGNA NON SUPERERÀ FRANCO Una scena da “Il silenzio degli altri”, documentario sulla lotta muta delle vittime della dittatura franchista MADRID - Miguel Martínez del Arco è il figlio della donna che ha trascorso il periodo più lungo in prigione durante la dittatura franchista, una condanna di quasi due decenni. Lui ha pronunciato le seguenti parole. «Questo paese è una grande tomba. Quando senti i leader politici dire che il nostro grande poeta nazionale è stato Federico García Lorca, dimenticano di menzionare che si tratta di un desaparecido. È un fatto significativo. Se le ferite non vengono cauterizzate, è impossibile che guariscano. Tenere in vita e cercare la verità, garantire giustizia e riparazioni significa fare qualcosa di fondamentale perché un paese possa andar oltre le sue ferite. Una delle principali cause dell’estrema polarizzazione che stiamo vivendo in Spagna è il fatto che queste ferite non sono mai state ricucite. E il problema non è solo il silenzio, ma la mancanza di memoria, o il falso ricordo di ciò che è successo. Perché dare vita alla trasparenza non significa dare vita alla vendetta». Contro le voci che dicono che la guerra è un “capitolo chiuso” della storia spagnola, e che il paese dovrebbe “andare avanti”, le vittime affermano che ciò non è possibile senza la memoria. Alicia Alamillos scrive per El Confidencial UN MEMORIALE NON BASTA A FARE I CONTI COL NAZISMO Stelenfeld, un monumento in memoria degli ebrei uccisi in Europa, che si trova nel centro di Berlino. Foto Alexander Blum BERLINO - La gente che non sta in Germania continua a dirmi che il mio paese è un esempio da seguire nel fare i conti con il proprio passato nazista; e discussioni di questo tipo capitano anche nelle riunioni di preparazione di questa newsletter. Ogni volta, questa cosa mi fa raggelare e non riesco a trovare le parole per esprimere il disagio che provo. Ecco qui un tentativo di superare questa incapacità di parlarne. Davvero "noi tedeschi” abbiamo imparato la lezione della nostra storia? Abbiamo affrontato la nostra responsabilità per l’assassinio di milioni di persone e per le sofferenze causate dalla guerra e dalla persecuzione? La nostra democrazia è immune dalle ideologie naziste e totalitarie? Con l’attuale ascesa di Alternative für Deutschland e con gli omicidi razzisti e gli attacchi alle minoranze in Germania, è difficile crederci. Non dobbiamo dimenticare che ci sono voluti decenni in Germania Ovest affinché tra la popolazione generale si discutesse dei crimini nazisti e della responsabilità tedesca. E questo è stato possibile principalmente per via della pressione della società civile. Fino ad allora, le cariche di rilievo della magistratura, dell’amministrazione e della politica erano state occupate dai colpevoli e dai complici del regime nazista. I crimini venivano minimizzati e i criminali riabilitati. Paesi come la Polonia e la Grecia non hanno ancora ricevuto le riparazioni di guerra. E niente lascia presagire che il governo tedesco stia almeno valutando se rivendicazioni del genere siano giustificate. Dall’esterno, può sembrare che la Germania sia un modello da seguire nel fare i conti con la propria storia. Ogni bambino a scuola viene a sapere dei crimini del nazionalsocialismo. La memoria pubblica è tenuta saldamente ancorata dai memoriali nei luoghi centrali delle città, mentre gli eventi commemorativi attirano i pubblici ufficiali di più alto rango. Ma c’è il grande pericolo che questa commemorazione diventi un cliché, una routine superficiale. Troppe persone sostengono che, quando si tratta di ricordare, “quando è troppo è troppo”. Ma non sarà mai troppo finché continueranno le sofferenze causate dalla persecuzione e dalla guerra, e il trauma sarà trasmesso alle generazioni future. Ci vuole molto per guarire certe cicatrici. Judith Fiebelkorn è a capo del team eurotopics di n-ost IL NUMERO DELLA SETTIMANA: 82 PER CENTO PARIGI - Le Havre è stata a lungo soprannominata “Stalingrado sul mare”. Agli occhi di molti, i suoi viali diritti fiancheggiati da numerosi edifici di cemento, grigi e identici, costruiti dopo la seconda guerra mondiale, erano deprimenti e la città era considerata una delle più brutte della Francia. Le città sulla costa della Normandia hanno pagato il prezzo più alto della guerra: sono state pesantemente bombardate e Le Havre ha subito le maggiori distruzioni. L’82 per cento degli edifici è stato raso al suolo. Al posto delle rovine, l’architetto Auguste Perret ha dato vita a un gigantesco esperimento. È stato a lungo criticato, ma da allora gli abitanti sono riusciti a cambiare il modo in cui viene vista la città e, nel 2005, sono riusciti a inserirla nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Nelly Didelot fa parte della redazione Esteri di Libération UN FERMO IMMAGINE MENTRE LA FERITA STA ACCADENDO Kateryna, proveniente dalla città di Oleshky, allagata e occupata dalla Russia, è stata salvata dall’alluvione dai soccorritori ucraini. È riuscita a portare con sé quello che conta di più per lei. Foto Stas Kozliuk, Babel.ua KIEV - Il 6 giugno la centrale idroelettrica di Kakhovka è stata distrutta - secondo diversi resoconti, dalle forze di occupazione russe. Ciò ha provocato uno dei più grandi disastri ecologici d'Europa degli ultimi decenni, con un impatto sul lungo periodo. Ne abbiamo parlato con Serhiy Porovsky, ingegnere e ambientalista. Qual è la situazione nel sud dell’Ucraina a un mese dalla distruzione della centrale idroelettrica di Kakhovka? Ci sono problemi di approvvigionamento d’acqua in diversi insediamenti intorno al bacino idrico di Kakhovka. Il livello delle acque sotterranee è diminuito in modo significativo, i prodotti agricoli ne risentono. La possibilità di utilizzare il Dnepr per la navigazione è da escludere. Vasti territori sono stati contaminati, perché durante le inondazioni le acque hanno raggiunto impianti industriali, campi e cimiteri; e lì si trovano numerose sostanze tossiche. C’è un alto rischio di epidemie di malattie gastrointestinali e colera per via dei molti pesci, animali ed esseri umani morti nella zona colpita. Anche la Romania e la Bulgaria saranno colpite. Credo che nelle prossime settimane si inizierà a registrare un aumento dell’inquinamento delle acque marine. Sono stati già segnalati avvistamenti di delfini morti sulle spiagge di quei paesi. Come si evolverà il quadro nei prossimi anni? Si potrà dire solo dopo che l’acqua si sarà completamente ritirata e il funzionamento delle altre dighe sul fiume Dnepr si sarà stabilizzato. Inoltre, bisogna vedere se lo stato ucraino avrà accesso ai resti della centrale idroelettrica di Kakhovka. Se sì, sarà possibile costruire la paratoia e ripristinare parzialmente il livello delle acque sotterranee. Se questo non viene fatto entro la prossima estate, sarà tutta un’altra storia. Come si può intervenire? Ora è importante documentare tutti i danni causati dalla distruzione della diga. Secondo i dati preliminari raccolti dal ministero dell’Ecologia ucraino, le perdite sono stimate a sei miliardi di dollari. Ora anche gli altri paesi devono documentare le perdite che potrebbero subire. Se la Russia dovesse essere riconosciuta come la responsabile e colpevole di questa catastrofe, dovrebbe pagare i risarcimenti in base ai danni che verranno rilevati. Quel denaro dovrebbe a quel punto essere speso per rigenerare l'area. Oksana Kovalenko scrive per Babel.ua Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva [email protected] se vuoi mandarcela in inglese, oppure a [email protected] Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti (Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti) EuropaNine European Media Outlets Launch Unique ‘European Focus’ CollaborationFrancesca De Benedetti© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?Accedia cura di Francesca De Benedetti Scrive di Europa ed Esteri a Domani, dove cura anche le partnership coi media internazionali, e ha cofondato il progetto European Focus, una coproduzione di contenuti su scala europea a cura di Domani e altri otto media europei tra i quali Libération e Gazeta Wyborcza. Europea per vocazione, in precedenza ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto per The Independent, MicroMega e altre testate. Non perdiamoci di vista: questo è il mio account Twitter
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