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California, due camion si ribaltano sul Richmond-San Rafael Bridge per il forte ventoQuesto è un nuovo numero di Areale,ETF la newsletter settimanale di Domani sull’ambiente e sul clima. In questo numero si parla ovviamente molto di Cop26, delle disuguaglianze collegate al debito, delle «grande muraglia ambientale», di perché sarebbe utile avere una legge sul clima in Italia, dei coralli in un mondo più caldo e di come Glasgow si prepara ad accogliere il vertice. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter in arrivo ogni sabato mattina clicca qui. Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è l’ultimo numero di Areale prima della Cop26 di Glasgow, momento atteso, evocato e costruito in questo anno di azione per il clima. Io sarò lì, i compagni di viaggio di Destinazione Cop saranno lì, Domani sarà lì, ci sarà parecchio da raccontare. Intro: «Ora basta con i bla bla bla» È il titolo dello speciale DopoDomani che dedichiamo a questa congiuntura decisiva, è in edicola oggi, sabato 30 ottobre, con Domani, uscite e compratelo, è una guida e una mappa di tutto quello che c’è nel nostro sguardo alla vigilia del vertice sul clima. C’è scritto come seguirlo, come leggerlo, come interpretarne i momenti, quali aspettative è giusto coltivare, quali illusioni è meglio non farsi. Ci sono i contributi miei, di Fabio Deotto (sull’Italia già in crisi climatica), Stella Levantesi (sulle vecchie e nuove trappole del negazionismo e della procrastinazione climatica), Luigi Torreggiani (sulla grande sfida forestale dell’Italia), Destinazione Cop (sul lungo viaggio dei negoziati), c’è un’intervista al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani fatta da me e dal direttore Stefano Feltri a Parma. Qui trovate tutte le informazioni. Il resto è in quei luoghi bellissimi e a volte surreali che sono le edicole. Per parlare di crisi climatica abbiamo bisogno di contesto e di prospettive. Il 29 ottobre c’è stato il terzo anniversario della tempesta Vaia, uno dei più traumatici episodi di cambiamento climatico che abbiano colpito il nostro paese. Con Luigi Torreggiani (e la coproduzione Domani + Compagnia delle foreste) abbiamo raccontato quella storia in una miniserie podcast in quattro puntate. Contiene la notte della tempesta, i tre anni che sono seguiti, il dolore, il rumore di milioni di alberi che cadono, la connessione climatica, le prospettive e il futuro. Potete ascoltare Vaia – alberi, esseri umani, clima, su Spotify oppure sulla vostra piattaforma di podcast preferita. Fatemi sapere cosa ne pensate, è un reportage frutto di un avventuroso viaggio e di un paio di mesi di lavoro di ricerca, scrittura e produzione, è insomma qualcosa a cui teniamo tanto. (La mia e-mail è in fondo). Clima, seguiamo i soldi Uno dei grandi temi del vertice sul clima sono le disuguaglianze. La faglia che c’è tra la parte di mondo responsabile della crisi e quella che la crisi non ha alternative che subirla, ma anche tra chi è più attrezzato per adattarsi e chi rischia di affondare nell’emergenza. Secondo le ultime proiezioni, l’obiettivo fissato a Parigi nel 2015 dei 100 miliardi di dollari all’anno di finanza per il clima da raccogliere per aiutare i paesi più vulnerabili sarà raggiunto soltanto nel 2023, con tre anni di ritardo. Ma lungo la strada della giustizia climatica ci sono ostacoli anche più profondi della difficoltà a mettere insieme questa colletta da parte delle economie più ricche. Ce le raccontano due studi usciti nel corso di questa settimana: il primo evidenzia l’enorme problema del debito per le nazioni più povere nell’azione per il clima. Il secondo illumina l’altro versante di questa storia, la predilezione per la fortezza climatica, la tendenza dei paesi più potenti a investire nella militarizzazione delle frontiere (anche nella prospettiva di un aumento delle migrazioni ambientali) invece che nella solidarietà nei confronti dei paesi che stanno subendo una crisi climatica che hanno contribuito solo in minima parte a causare. La prima ricerca viene da Jubilee Debt Campaign, una coalizione di organizzazioni che si battono per la cancellazione del debito, ormai diventato un enorme problema anche nel contrasto alla crisi climatica. I 34 paesi più poveri al mondo spendono cinque volte in più per ripagare il debito accumulato nei confronti di altri paesi, banche e istituzioni internazionali che in misure di adattamento e mitigazione all’emergenza climatica. I pagamenti annuali sul debito oggi ammontano a 29,4 miliardi di dollari, l’investimento per sopravvivere in un mondo che cambia soltanto a 5,4 miliardi di dollari. Era anche uno dei temi sollevati nel potente intervento dell’attivista Vanessa Nakate all’evento Youth4Climate di fine settembre a Milano. L’Uganda, il suo paese, ha potuto spendere solo 537 milioni di dollari per infrastrutture e misure di adattamento tra il 2016 e il 2020, un budget annuale di 107,4 milioni, drasticamente inferiore ai 739 milioni di dollari pagati nel 2021 per rincorrere il debito. È una forbice che secondo le proiezione di Jubilee Debt Campaign non farà che allargarsi: nel 2025 le economie più vulnerabili si troveranno a spendere sette volte di più in pagamento del debito (con interessi che viaggiano intorno al 10 per cento) che in azione per il clima. L’altra faccia siamo noi, le economie più ricche e solide, quelle riunite a Roma questo weekend per il G20. La rincorsa partita nel 2009 per arrivare a quei 100 miliardi di dollari all’anno era stata sigillata alla Cop21 di Parigi. La deadline era il 2020, la lentezza e i ritardi nel mettere insieme questa somma sono state uno degli esiti più scoraggianti nell’eredità dell’accordo di Parigi. Una prospettiva interessante sulle scelte e le priorità di questi paesi (tra cui l’Italia) arriva da uno studio della Ong Transnational Institute, che ha messo a confronto il Green Climate Fund con quello che ha definito il Global Climate Wall, la «grande muraglia climatica» che nei prossimi decenni servirà a tenere fuori migranti spinti a mettersi in viaggio non solo dalla povertà e dalle guerre, ma anche dalle catastrofi ambientali. I fondi che sono serviti a costruire questa grande muraglia di mare e di terra sono 2,3 volte più alti che quelli finiti negli aiuti ai paesi impegnati ad affrontare l’emergenza climatica. Spendiamo più per tenere lontane le vittime della crisi che per aiutarle a farci i conti. Non esattamente una sorpresa ma è una quantificazione che colpisce. Perché non abbiamo una legge per il clima? A differenza di altri grandi paesi europei – come la Francia o la Germania – l’Italia non ha una legge sul clima e non c’è nemmeno un vero dibattito pubblico sul dotarcene. Nel corso di quest’anno le grandi organizzazioni ambientaliste avevano già sollevato il tema, la Cop26 è una buona occasione per tornare a parlarne. Ci ha provato il think tank Ecco con un’analisi che spiega bene soprattutto a cosa serve una legge sul clima, cioè a «ridurre il distacco tra gli impegni e l’effettiva implementazione della politica climatica», tra le parole e i fatti, tra pledge e policy. In assenza di una legge organica, per esempio, gli obiettivi rimangono indefiniti, non c’è coerenza tra la visione strategica a lungo termine e le scelte che vengono fatte a breve termine. Non si riesce ad avere coerenza nemmeno tra le policy nazionali e gli obiettivi di decarbonizzazione. Oggi in Italia si fa fatica a coordinare un vero monitoraggio dei progressi e ad allineare i vari livelli della pubblica amministrazione. Insomma, la materia clima viene affrontata in ordine sparso e una legge permetterebbe di cucire i pezzi in qualcosa che somigli a un meccanismo, un ingranaggio coordinato e coerente. In una buona legge sul clima potremmo avere un carbon budget nazionale, realistico e puntale, con un sistema di valutazione e monitoraggio che permetta anche di assegnare le responsabilità politiche: cioè di chi è compito fare cosa, di chi è colpa se quella cosa non viene fatta. L’azione per il clima ha bisogno di accountability: gli obiettivi vanno integrati a ogni livello delle istituzioni. Infine, potrebbe darci finalmente un Comitato scientifico indipendente sul clima, sul modello di quanto fatto con la pandemia. Sarebbe anche una bella occasione per sensibilizzare i cittadini, mostrare il problema come politicamente reale e politicamente rilevante. Una differenza tra 2°C e 1.5°C: i coralli Uno dei temi della Cop26 di Glasgow (e del G20 di Roma) è sciogliere l’ambiguità che ancora circonda gli obiettivi sul contenimento della temperatura. L’accordo di Parigi l’aveva istituzionalizzata, quella ambiguità, costringendoci ad abitare la finta equivalenza tra «ben sotto i 2°C e possibilmente 1.5°C». Era probabilmente l’unico compromesso possibile in quel contesto, ma tre anni dopo l’Ipcc ha confermato che per la scienza l’obiettivo deve essere solo 1.5°C, perché già a 2°C è un mondo diverso, un mondo pericoloso. Uno degli esempi per illustrare la differenza sono le barriere coralline, uno degli ecosistemi più delicati e importanti del mondo, e tra i più minacciati dal riscaldamento globale. Andiamo verso un futuro preoccupante in ogni caso, intendiamoci, perché superando 1.5°C vedremmo un declino tra il 70 per cento e il 90 per cento, già una di quelle enormità che ci spingono oltre il confine dell’impensabile. Ecco, a 2°C il declino previsto sarebbe superiore al 99 per cento. Quindi una differenza tra i due obiettivi della forchetta di Parigi è che in un caso ci sono ancora delle barriere coralline e nell’altro non ci sono più. POLINESIA , BARRIERA CORALLINA PESCI A che punto siamo, ora? Questo mese è uscita la prima raccolta globale di dati sulle barriere coralline, prodotta dal Global Coral Reef Monitoring Network, uno studio più che decennale su 73 paesi costieri diversi. Ecco, dal 2008 al 2018 abbiamo già perso il 14 per cento delle barriere coralline, 11.700 chilometri di ecosistemi cancellati. Per dirla con le parole di Christian Voolstra, genomista ecologico: «Se fosse successo alla foresta amazzonica sarebbe sulle prime pagine di tutto il mondo. Non lo notiamo perché succede sott’acqua». Ci sono però dei segnali di speranza qua e là, e li evidenzia Yale 360: il rapporto racconta casi di adattamento a un mare più caldo, e in alcuni punti – come il «Triangolo del corallo» in estremo oriente – c’è stata addirittura una ripresa. Il corallo sa adattarsi: una prima catastrofe di massa avvenne nel 1998, durante una stagione di El Niño che ne cancellò l’8 per cento globalmente. Nel 2010 i numeri erano tornati ormai sani e stabili, quando è iniziato il nuovo grande declino, causato dall’aumento delle temperature degli oceani. Globalmente, le barriere coralline si trovano soprattutto in quattro grandi regioni. Quella asiatica, l’unica nella quale ci siano segnali di salute, ne ospita un terzo del totale. Poi ci sono il Pacifico, un quarto di tutti i reef del mondo, l’Australia col suo 16 per cento e i Caraibi con il 10 per cento. Nelle ultime tre regioni la situazione è grave, addirittura tragica e quasi definitivamente già compromessa ai Caraibi. Nel mondo oggi ci sono 360 progetti di rigenerazione corallina in cinquanta paesi, con un boom di progetti, tecnologie, soluzioni e ricerca, che vanno dal trapiantarne da aree sane ad aree in difficoltà a delle vere e proprie nursery per barriere coralline. Ma tutto questo rischia di essere inutile se porteremo l’aumento delle temperature a 2°C. E Glasgow? Come sta? La città che per quasi due settimane sarà il centro di ogni discorso, battaglia e protesta per il clima si presenta all’appuntamento «half dressed», come scrive il Guardian, vestita a metà, non ancora del tutto pronta, e, forse, a giornate così pronti non si può arrivare mai. Sicuramente è sotto pressione: ci sono minacce di scioperi e una speculazione rampante sugli alloggi per delegati e attivisti, come probabilmente era inevitabile in una città che si troverà ad accogliere 30mila persone ma dispone di solo 15mila posti letto. Di positivo c’è l’impatto del progetto Human Hotel, che ha permesso di mettere in contatto locali che non avevano voglia di monetizzare eventuali posti letto extra e delegati che non erano in grado di sborsare cifre a quattro zeri per seguire tutto l’evento: un migliaio di posti letto è apparso così, come un piccolo miracolo di generosità (su Airbnb oggi a Glasgow si viaggia verso le 1.300 sterline a notte). Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved L’amministrazione comunale da mesi sta preparando e allenando i cittadini a questo grande e soprattutto lungo vertice, con un sito, newsletter, incontri, informazioni diffuse porta a porta. A rendere più teso il contesto ci sono le minacce di scioperi, in particolare dal settore trasporti, che sono stati annunciati già per questo weekend. Ci sono ovviamente preoccupazioni per l’ordine pubblico, soprattutto per le annunciate proteste a partire da venerdì prossimo: il governo scozzese ha stimato una previsione di qualche centinaio di arresti al giorno. E poi c’è ovviamente la pandemia: il protocollo della Cop26 sarà molto rigido (tutti i delegati dovranno somministrarsi un tampone rapido al giorno, quelli che vengono da paesi a bassi tassi di vaccinazione devono affrontare dieci giorni di quarantena), ma in un contesto di fine generale delle restrizioni e ripresa dei casi di Covid. Per questa settimana è tutto: se avete richieste e domande sulla Cop26 di Glasgow (o se sarete lì), o qualsiasi altro dubbio, critica, osservazione, scrivetemi a [email protected] Per comunicare con Domani, invece, l’indirizzo è [email protected] A presto, Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni).
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