Napoli, Antonio Capuano rischia di annegare: i bagnanti salvano il regista"Voglio far esplodere il Vaticano": inseguimento da film a RomaNotizie di Cronaca in tempo reale - Pag. 301
Verzegnis, volontario della Protezione civile travolto da una ceppaia nel bosco: stava pulendo un sentieroIllustrazione di Stefano Misesti COMMENTA E CONDIVIDI Con questa e numerose altre testimonianze,trading a breve termine storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE"Chiamatemi Sahar. Ho 55 anni e vengo dal nord dell’Afghanistan. Vivo a Kabul. Sono laureata e abilitata all’insegnamento. Sono sposata, non ho figli. Ho scelto di dedicarmi al volontariato e all’istruzione femminile. Mi occupo di scuole segrete fin dal primo periodo dei taleban: ho lavorato a lungo come direttrice e come insegnante”. Non ha un volto, né un timbro di voce. Non ha un indirizzo di posta elettronica, né un numero di telefono. Le sue parole ci arrivano tramite il Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), tradotte in inglese e in messaggi vocali da una responsabile dell’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa), fondata nel 1977 e clandestina dal 1987 dopo l’assassinio della fondatrice. Ovviamente, Sahar non è il suo nome.Prima del 15 agosto 2021, quando i taleban sono tornati al potere, racconta, l’insegnamento a domicilio di Rawa era più o meno tollerato: i vicini sapevano, le lezioni si tenevano a orari regolari e in spazi fissi, con tavoli e sedie, c’era un gruppo classe. “Ora la segretezza è la nostra prima preoccupazione: insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme, per 2-3 ore o anche solo un’ora, per tre o quattro giorni la settimana. Dipende dalle situazioni. Al primo posto, sempre, la sicurezza”.Con le bambine è una specie di gioco, con le più grandi “parliamo della situazione politica, dell’economia familiare e di educazione sanitaria. Incoraggiamo le adolescenti a interessarsi alla politica, a credere in sé stesse e a costruire la propria personalità. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a far sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e a fingere di star leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi”. Tutte sarte, le vorrebbero i taleban. Invece donne e bambine chiedono di imparare a usare il computer. Aspirazione vana: non tanto per i costi d’acquisto e la mancanza di elettricità, quanto per la difficoltà di nascondere un pc. Riescono a studiare scienze e inglese. E ad alfabetizzarsi, in tutti i sensi: imparare a leggere, scrivere e far di conto (l’85% delle adulte è analfabeta) prendendo consapevolezza dei propri diritti. Di esseri umani, in una società in cui il corpo della donna è proprietà maschile e come tale può essere scambiato e venduto fin dalla pubertà.“Ci sono allieve che hanno lasciato perché costrette a sposarsi bambine, per i problemi finanziari della famiglia o per divieti e migrazioni. Abbiamo diversi tipi di scuole, a seconda dell’età. Le più entusiaste sono le adolescenti, costrette a interrompere gli studi: sono pronte ad accettare ogni rischio, discutono con i genitori, fanno pressione. Non possiamo accettarle senza il consenso della famiglia, sarebbe una responsabilità troppo grande. Anche le universitarie, costrette a rinunciare a laurearsi e a svolgere una professione, coltivano la speranza, studiando, di migliorare la propria posizione se non altro in ambito familiare. E’ l’unica possibilità che hanno di fare qualcosa per sé”.Il criterio per l’avvio di una scuola segreta, spiega Sahar (“ne esistono in tutto il Paese, dalla capitale alle aree rurali”), è l’esistenza di una “rete di protezione locale”. “Fiducia e relazioni sono alla base della nostra organizzazione. Neanche tutte le insegnanti sanno esattamente chi siamo, il nostro impegno politico. Ad alcune ci presentiamo come donatori, con finanziamenti stranieri per l’istruzione alle donne. Insegniamo anche alle bambine che frequentano la scuola governativa (consentita alle femmine fino ai 12-13 anni, ndr) ma non vi imparano nulla, per mancanza di insegnanti e per la scarsa qualità dell’istruzione. Di recente abbiamo avviato corsi per le donne che vivono nascoste 24 ore su 24 nelle nostre case protette, gli shelter”, sottratte agli abusi fisici e psicologici dei mariti-padroni e delle loro famiglie. Prima lezione: essere consapevoli della propria dignità di persone. E non arrendersi a lasciarla calpestare.
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