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Ragazzo dislessico insultato da Salvini: spunta la denuncia

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Voto di scambio mafioso: Roberto Rosso rassegna le dimissioniCOMMENTA E CONDIVIDI Quando finalmente in fondo a una calle lo sguardo incrocia quello di due bambini che si passano il pallone,Campanella allegri e sorridenti ed evidentemente uguali ai bambini di tutto il mondo, la distorsione visiva si fa manifesta. Per ore, per l’intera giornata, in giro per Venezia abbiamo incrociato quasi solo turisti. Persone provenienti da tutto il mondo che succhiano una città al limite, che paga con l’auto-consumo la sua celebrità. Eppure, evidentemente, esistono anche i bambini in laguna, parte di quegli appena 50mila residenti rimasti nella città storica a fronte di 25 milioni di arrivi l’anno. Venezia come Firenze, come Barcellona, come Parigi. Eppure, peggio. Perché qui l’overtourism e la turistificazione, fenomeni l’un l’altro legati, hanno mangiato non solo un quartiere o una fetta di città, ma di fatto l’intero territorio lagunare. Marco d’Eramo (nel suo Il selfie del mondo, Feltrinelli Editore) ha definito la nostra come «l’età del turismo». E non solo perché «il turismo è ormai la più importante industria di questo nuovo secolo». È un’era che si è aperta con i voli low cost e che, passando per l’abbattimento delle frontiere, soprattutto quelle europee, ha surfato sullo smantellamento dell’hotel come unica soluzione di pernottamento. Le piattaforme digitali ci hanno trasformato in agenti di viaggio di noi stessi, mentre i vari Airbnb da un lato e un mondo produttivo di pizze al taglio e negozi a basso prezzo dall’altro trasformavano l’ecologia sociale dei centri più instagrammabili, fino a cambiare la morfologia stessa delle nostre città. A costo di ore di fila, desideriamo, meglio pretendiamo il nostro selfie non solo davanti alla Gioconda, ma anche davanti a tutto ciò che sembri un simbolo, meglio ancora se irrimediabilmente pop. Come il paesino svizzero di Iseltwald, 400 abitanti, invaso nel giro di un anno da 400mila visitatori asiatici, accorsi a fotografarsi sul pontile di una delle scene più struggenti di Crash Landing on you, serie Netflix con protagonisti una coppia di giovani coreani. Non sfugge a nessuno l’insostenibilità di un modello di turismo di massa che non è un modello, ma l’accaparramento di istanti e ricordi accumulati su un cellulare per essere condivisi e poi mai più rispolverati. E se per alcuni territori un turismo davvero sostenibile continua ad essere una possibile soluzione a problemi di sviluppo economico, è evidente l’impatto sullo spazio urbano di un fenomeno, il turismo di massa, che in molti casi è portato al limite da speculazioni di parte e che difficilmente viene gestito guardando al bene comune dei residenti e alla tutela degli spazi. Il risultato è spesso la riduzione di disponibilità di alloggi e servizi e l’espulsione di intere classi sociali dalle zone più turistiche. Per chi resta, la vivibilità è al limite. Settore più colpito dalle restrizioni legate alla pandemia di Covid, il turismo è ripartito come e più di prima. Per restare alla sola Italia, secondo l’Agenzia nazionale del turismo nel 2023 solo in alberghi e strutture ricettive, escludendo dunque gli alloggi affittati da privati, gli arrivi turistici sono stati 125 milioni (+5,5% sul 2022), con gli stranieri che rappresentano ormai il 50,2% del totale. I pernottamenti totali sono stati oltre 431 milioni, dato che ci pone al secondo posto in Europa, prima della Francia e dietro solo alla Spagna. Proprio la Spagna ha segnalato cifre record nel primo trimestre 2024, sia per numero di visitatori internazionali, superiori ai 16,1 milioni, che per spesa turistica, pari a 21,9 miliardi di euro. Rappresentano rispettivamente un aumento del 17,7% e del 27,2% rispetto allo stesso periodo del 2023. In generale, secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, gli arrivi turistici internazionali aumenteranno di 43 milioni in media all'anno e raggiungeranno 1,8 miliardi entro il 2030, di cui il 41% in Europa. Turisti su turisti, dunque. E in pochi che si chiedano quale soglia si debba raggiungere prima di porre qualche limite. L’importante è mostrare, ogni anno, un segno più come icona del progresso. Proprio in Spagna ha fatto rumore la protesta dei residenti alle isole Canarie contro il turismo di massa. Al grido di «Canarias tiene un limite», le Canarie hanno un limite, migliaia di residenti nelle otto isole dell'arcipelago nell'oceano Atlantico hanno protestato contro un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento dell'ambiente e delle risorse naturali che “spreme” il territorio. Un modello che, sebbene origini il 40% dell’impiego e contribuisca al 36% del Pil delle isole, «non distribuisce ricchezza fra la popolazione, ma provoca un’escalation dei prezzi degli alloggi ed è causa dell’aggravamento delle disuguaglianze, con il rischio di esclusione sociale del 33% della popolazione», segnala Pilar Arteta, ecologista di Lanzarote. Nel 2023 le Canarie hanno registrato il numero più alto di arrivi turistici in Spagna, 13,9 milioni di persone, rispetto a una popolazione residente di 2,2 milioni che ha registrato i tassi più elevati di povertà – fino al 33% della popolazione è a rischio di esclusione – come segnala il Rapporto annuale della povertà in Spagna, Arope. I manifestanti hanno reclamato “misure immediate” come un’ecotassa per i turisti, una moratoria turistica e l’accesso preferenziale alle case a residenti e lavoratori.Non un’ecotassa ma un ticket d’ingresso di 5 euro è quello che ha introdotto Venezia lo scorso 25 aprile a carico dei visitatori giornalieri per poter entrare nella città storica in alcune date. Un provvedimento difeso dal sindaco Luigi Brugnaro anche davanti ai molti che hanno contestato l’idea di una città trasformata in «Veniceland». «Venezia non si vende, si difende», lo slogan dei manifestanti, che chiedono altri tipi di misure e servizi per i residenti. « Il turismo mordi e fuggi non porta niente alla città, ma un ticket di 5 euro non blocca proprio nessuno – sottolinea a L’Economia Civile Francesco Musco, architetto e docente di Tecnica e pianificazione urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia –. L’unico vero vantaggio per l’amministrazione locale è avere risorse aggiuntive per la manutenzione urbana, ma è improbabile che solo così il sistema cambi». I primi dati sembrano dimostrarlo: il 19 maggio, secondo la lista civica “Tutta la città insieme”, Venezia ha avuto 70mila ingressi, contro i 65mila del 2 giugno 2023.Per Musco l’alluvione del 2019 e il lockdown del 2020, con il collasso dell’economia veneziana, hanno «ampiamente dimostrato che questo modello produttivo non è governato e che non c’è ormai a Venezia altro tipo di attività economica che non sia orientata al turismo. Inoltre, a differenza di altri contesti come Barcellona o Roma, Venezia ha una limitatezza dimensionale che fa avvertire maggiormente il problema». Per la città lagunare occorrono soluzioni di lunga durata, secondo Musco, come quella del progetto di Venezia Città Campus, che ha l’obiettivo «da un lato di aumentare l’offerta accademica, dall’altro di incentivare servizi e residenzialità, anche tramite i molti spazi inutilizzati della Marina militare, con l’arrivo non solo di studenti ma anche di ricercatori e lavoratori per riequilibrare il tessuto cittadino».Tra le città che ci provano da tempo, a cambiare, c’è Amsterdam, meno di 1 milione di abitanti e 20 milioni di turisti (solo in hotel) all’anno. Divieto di costruire nuovi alberghi, limite di 30 giorni l’anno per affittare la propria casa a terzi, chiusura anticipata per alcuni locali, restrizioni crescenti anche per zone come il quartiere a luci rosse, che continua ad attrarre un turismo giudicato non più sostenibile, per numeri e tipologia. «Vogliamo rendere la città più vivibile per i residenti e visitatori», sottolineano le autorità della capitale olandese, che già l’anno scorso aveva lanciato una campagna di comunicazione per scoraggiare l’arrivo di turisti “problematici” per l’ordine pubblico: «Stay away», state alla larga.Più in generale, esiste, certo, un altro tipo di turismo, che tiene pienamente conto, è la definizione Onu, «dei suoi impatti economici, sociali e ambientali presenti e futuri, considerando le esigenze dei visitatori, delle imprese, dell’ambiente e delle comunità ospitanti». Una definizione semplice solo in apparenza: perché interessa temi e soggetti diversi. Per ogni notte in albergo, secondo il calcolo di Turtle, spin off dell'Università di Bologna, un turista produce emissioni che vanno da un minimo di cinque chilogrammi di CO2, nelle strutture più performanti, fino a quintuplicarsi a venticinque chilogrammi, quando a una pessima prestazione energetica dell’edificio si sommano sprechi su sprechi alimentari. E i pernottamenti tramite Airbnb non migliorano certo le cose. In generale, il 75% dei turisti sceglierebbe in vacanza una camera sostenibile, a patto però che la spesa sia pari a quella per stanze più inquinanti. Siamo turisti consapevoli e impegnati, insomma, ma fino a un certo punto.Ci sono località, anche medio-piccole, che davvero riescono a vivere di un turismo ordinato e altre, molte, che ne subiscono in pieno l’impatto. Ci sono percorsi “green”, itinerari ecosostenibili, soluzioni che valorizzano l’ambiente naturale e culturale. Ma rischiano di poter essere al più solo nicchie, modelli limpidi ma difficilmente replicabili su scala più ampia. Per il sociologo francese Rodolphe Christin, autore di Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera), l’apologia del movimento è parte integrante del consumo di un mondo costantemente rimpicciolito dalla tecnologia. Secondo questa visione, il turismo sarebbe diventato, «insieme alla televisione, agli antidepressivi e al calcio, uno dei più potenti anestetici che la società contemporanea elargisce ai suoi logorati cittadini, immersi in una ipermobilità che dà la misura della loro insoddisfazione». C’è più di un motivo per provare a modificare questa traiettoria, evidentemente, in qualcosa di meglio. Non c’è più molto tempo.

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