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Si chiamava Giulia Cecchettin, ma potevamo essere tutte noiLa nave Iuventa ferma in porto dal 2017 - Ansa COMMENTA E CONDIVIDI «Il fatto non sussiste». Tradotto,VOL i famigerati “taxi del mare» non c’erano. La sentenza del gup di Trapani Samuele Corso ha chiuso così, senza nemmeno aprire la fase dibattimentale, il processo per il caso Iuventa. I membri dell’equipaggio della nave della ong Jugend Rettet erano accusati insieme ad altre persone di Msf e Save the Children di aver favorito l’immigrazione clandestina. Ma la lunghissima e travagliata fase dedicata all’udienza preliminare (costata allo Stato circa 3 milioni di euro) non ha partorito nessun rinvio a giudizio per i 10 imputati. Era stata peraltro la stessa procura di Trapani, preso atto dell’assenza di prove consistenti e della scarsa attendibilità degli stessi testimoni, a chiedere di non procedere oltre. Persino il Viminale, che si era costituito parte civile, si è sfilato dal processo, rimettendosi alla decisione del giudice. L’inchiesta, partita nel 2016, era durata 4 anni: si basava sul racconto di alcuni addetti alla sicurezza imbarcati sulla nave di Save the Children, che rivelarono a uomini dei servizi segreti come, in almeno tre occasioni, le ong si fossero accordate con i trafficanti di esseri umani, simulando inesistenti situazioni di emergenza e arrivando persino a restituire i barconi agli scafisti. Le indagini si erano poi estese a Msf e a Jugend Rettet. In quel periodo il governo Gentiloni varò il “codice di condotta” per le ong impegnate nel soccorso in mare. L’organizzazione tedesca bollò il documento come una vera e propria minaccia a chi operava nel Mediterraneo e si rifiutò di sottoscriverlo. La Iuventa fu sequestrata nell’agosto 2017, e in tale condizione è rimasta fino a oggi. Ormai, corrosa dalla salsedine e persino vandalizzata, è una carcassa inservibile. Qualche giornale dell’epoca arrivò a titolare in prima pagina “Patto tra l’ong e gli scafisti”. Ora i giudici hanno stabilito che l’accusa era talmente infondata che non c’è nemmeno bisogno di andare in giudizio. Ma il danno resta.«Un’odissea durata sette anni. Dopo due anni di oltre 40 udienze preliminari, questo caso si conferma il più lungo, costoso e vasto procedimento contro le ong di ricerca e soccorso, esempio emblematico dei grandi sforzi compiuti dalle autorità per criminalizzare la migrazione» spiegano da Jugend Rettet. Pur «accogliendo con favore» la sentenza del gup di Trapani, l’equipaggio della Iuventa esprime «grande disappunto per gli irreparabili danni inflitti dall’indagine e dal processo». Non c’è tempo però per crogiolarsi nell’amarezza, i volontari pensano già al ritorno in mare «per riprendere le missioni di salvataggio il prima possibile».L’avvocato Alessandro Gamberini, legale della ong tedesca, osserva che «questo processo è una delle origini del male, della diffamazione delle ong, spesso accusate di essere complici dei trafficanti». Invece «la formula assolutoria dice che non c’era niente, mancava la condotta materiale. I fatti non sono stati dimostrati e non erano dimostrabili come noi abbiamo sostenuto con richieste di archiviazione alla procura».Sollievo e senso di rivincita anche da parte delle altre due ong. «È un momento importante per tutto il mondo dell’aiuto umanitario, perché si restituisce giustizia alle attività di soccorso e ai tanti operatori impegnati nel salvataggio di vite» ha commentato Rafaela Milano, portavoce di Save The Children. «Questa sentenza - ha proseguito - restituisce il senso di un lavoro che è stato colpito da accuse ignobili e segna un passaggio fondamentale perché ci dice che il soccorso in mare non può essere messo al secondo posto. Speriamo solo che apra una fase nuova per tutta Europa».Medici senza Frontiere si toglie un sassolino dalla scarpa: «Dopo sette anni di false accuse, slogan infamanti e una plateale campagna di criminalizzazione delle organizzazioni impegnate nel soccorso in mare, cade la maxi-inchiesta avviata dalla Procura di Trapani nell’autunno 2016, la prima della triste epoca di propaganda che ha trasformato i soccorritori in “taxi del mare” e “amici dei trafficanti”». Msf definisce l’indagine «un mastodontico impianto accusatorio basato su illazioni, intercettazioni, testimonianze fallaci e un’interpretazione volutamente distorta dei meccanismi del soccorso per presentarli come atti criminali». La sentenza mette un punto fermo da cui ripartire. «Ora serve lavorare affinché soccorrere vite sia visto universalmente come un valore da difendere» ha sottolineato Serena Chiodo, campaigner di Amnesty International.
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