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Intelligenza artificiale tra formazione e lavoroAdesso che è l’allenatore rivelazione della serie A,BlackRock Italia col Bologna al quarto posto, tutti si ricordano di quando giocava. Elegantissimo, come un ralenti. Così preciso, metodico, da risultare prodigioso. L’opinione pubblica, abituata a tagliare tutto con l’accetta, lo ridusse a un aggettivo: lento. Nella sua carriera in panchina sta avendo un’accelerazione supersonica. A soli 41 anni. La leggenda narra che i suoi allenatori restassero incantati dalla perfezione dell’essere, una macchina fatta di muscoli e connessioni neurologiche. Thiago Motta il calciatore era indispensabile per tutti loro: per l’esigente Gasperini; per Ancelotti cuor di leone; per il shakespeariano Mourinho. Mou lo ha definito «il mio bambino» aggiungendo che «lo sarà sempre» dopo che Motta, domenica sera, al Dall’Ara, in questo suo presente da allenatore-adulto del Bologna, aveva steso lui e la Roma con due sganassoni regalando dunque ai rossoblù il quarto posto. Adesso che Thiago è il tecnico of the year, of the life, of the universe, tutti si ricordano di quando giocava. Elegantissimo, come un ralenti. Di nicchia, come una pellicola in bianco e nero. Così preciso, metodico, da risultare prodigioso. L’opinione pubblica, invece, abituata a tagliare tutto con l’accetta, lo ridusse a un aggettivo: lento. Lo so, ha sospirato lui una volta, «non sono un giocatore velocissimo. Si è creata un’opinione, soprattutto nel giornalismo, che sostiene che Thiago Motta è lento. È vero e vorrei essere più veloce». Detto, fatto. Nella sua carriera di allenatore Motta sta avendo un’accelerazione supersonica, e niente sembra in grado di fermarlo. Ha solo 41 anni.Le definizioniA Parigi continuano a chiamarlo «le patron», il capo. Persino Ibrahimovic lo ha sempre rispettato. Prandelli quando era ct dell’Italia si stupiva della durezza di quel suo centrocampista dall’aria indolente, Thiago era già uno in grado di tenere in pugno lo spogliatoio. Severo ma giusto, insomma. Fero e piuma, diceva Verdone. Anche se poi d’acciaio si è rivelato nella gestione di centravanti come Nzola (allo Spezia) o Arnautovic (a Bologna). L’anno scorso, per esempio, apriti cielo ogni volta che mandava l’austriaco in panchina. Oggi nessuno se ne mette più, è acqua passata. Anzi: aveva ragione proprio lui, Thiago. È forse in questo che consiste l’autentico, profondo «thiagomottismo»: nell’abilità del ragazzo venuto su a Sao Bernardo do Campo, città nella megalopoli di San Paolo, che ha dato i natali anche al presidente Lula, di far emergere la verità. La sua. Per dire: contro la Roma aveva bisogno di maggiori sicurezze ogni volta che un difensore appoggiava la palla sul portiere. Il numero uno Skorupski non gliele dava, il giovane e inesperto Ravaglia sì. E allora: cambio. Motta non si fa scrupoli. Per molti è una forma di democrazia («Gioca chi sta meglio e chi si allena meglio», lo dicono tutti i suoi calciatori), per altri quello di Thiago è un regno assolutista. Con Motta il fine non giustifica i mezzi, è solo un progetto da portare avanti. Machiavellico quanto genuino. Concreto e sognatore allo stesso tempo. «Io non faccio esperimenti», ha detto una volta. Lo stesso che poi giura: «Vado a lavorare con il sorriso» e «i tifosi hanno il diritto di sognare».Il metodoStudia, allena, va a casa. Ne ha presa una a due passi dal centro di Bologna, quartiere San Mamolo, quasi colli. A Casteldebole lo descrivono così: lo vedono arrivare di buona lena alle prime luci dell’alba e ovviamente lo vedono andare via al tramonto. Romantico stakanovista, lui. Altre leggende lo tratteggiano pure un po’ leopardiano, chino sui tablet del suo ufficio a rimirar partite su partite e sudatissimi schemi tattici. Famoso fu quello inventato sulla panchina dei baby del Psg, la sua prima esperienza da tecnico: un 2-7-2 con ali e attaccanti e terzini e centrocampisti tutti insieme appassionatamente. Un’orgia di passaggi e possesso palla. Bellissimo. Più ardito e mai decollato fu l’1-9-1 sulla panchina dello Spezia. Motta è un allenatore senza macchia e senza paura. Infatti la sua tesi a Coverciano si intitolava: “Lo strumento del mestiere nel cuore del gioco”. Cita filosofi, pedagoghi, scienziati, psicologi. Tra gli altri: Marcelo Bielsa. La frase clou è questa: «Per ottenere un calcio dominante bisogna non avere paura del pallone». Una volta Sophia, la prima figlia di Thiago, dal suo profilo Instagram fece sapere: «Tutti hanno paura di mio padre». E pubblicò una gallery di Motta con la faccia ingrugnita, arrabbiata, grrr. Poi però arrivava la versione paterna, il Thiago segreto, quello che nessuno vede mai. «Come si comporta a casa». E vai con il Motta che fa il balletto nella cucina di casa, quello della smorfia che non ti aspetti, quello della videochiamata con la faccia simpatica.Il privatoNon è l’uomo del lusso a tutti i costi, quando viveva a Parigi usava Uber per andare al campo d’allenamento e gli capitava di viaggiare con Ryanair. La praticità al servizio della vita. Ha un fratello (psicologo, vive a Barcellona), una sorella che viene spesso a Bologna (è anche la compagna di uno dei componenti del suo staff). Tre figlie. La moglie, Angela Lee, è una travel lover, dogs lover, running lover, e va anche a cavallo. I Motta sono appassionati di vino, dicono che Thiago ami da impazzire il Barolo (infatti uno dei loro cavalli si chiama così). Vivono tutti in Portogallo, a Cascais, il buen retiro dei Savoia in esilio. Una volta un giornalista tentò l’intervista impossibile: strappare qualche dichiarazione alla signora Angela. Niente, respinto con un sorriso. Qualche settimana dopo, nei lunghi corridoi del centro tecnico di Bologna, Thiago lo riprese senza sorriso: «Mai più». La famiglia è sacra, per Motta. Un nido da proteggere. Provarono a fargli dire qualcosa pubblicamente: come vive la tua famiglia il momento? Lui rispose: «No, di queste cose non parlo». Nelle conferenza stampa non è banale, è lineare. Ma una volta a Spezia i giornalisti disertarono. E anche adesso che il Bologna è in zona Champions lui continua a ripetere come un mantra: «Penso solo alla prossima, penso solo alla prossima, alla prossima, alla prossima». O, al massimo, «la prossima è la partita più importante». Thiago Motta pensa all’oggi, all’adesso. Immanenza del fùtbol. E il bello è che lui ci crede davvero. Il tempo e la velocità sono fattori con cui Motta ha sempre fatto i conti in qualche modo. Dall’elogio della lentezza di quando era giocatore al fulmineo percorso da allenatore, la variabile del tempo è dalla sua parte: davanti a sé ne ha moltissimo. Dopo il suo amico Raffaele Palladino (Monza), Motta è il più giovane allenatore della Serie A (insieme a Gilardino). Per un po’, dopo una vittoria, usava dire: «È il momento di gòdere», con l’accento sulla «o». Un gruppo di tifosi ne fece uno slogan da t-shirt. Per il suo lavoro a Bologna, Thiago lo elogiano in Francia (dove lo vedrebbero bene sulla panchina del Psg), in Brasile, in Spagna, in tutta Europa. «Si parla di noi, e ci sono più richieste di interviste. Ma con me lo sapete come funziona». Sì: non le fa. In compenso Thiago pensa a tutti, parla di tutti, si ricorda di tutti. Ha dedicato a Mihajlovic il successo sulla Roma. Ringrazia spesso quelli del club che il calcio lo vivono dietro le quinte. I suoi calciatori li chiama solo per nome, questo accorcia le distanze e crea un’intimità. A settembre gli hanno dato la cittadinanza a Polesella, il paese dei suoi avi. Da lì il bisavolo nel ’29 partì per il Brasile. «Ora mi sento davvero italiano», ha detto Motta. Lento forse, di certo inesorabile.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediGIORGIO BURREDDUGiornalista e autore. Cresciuto a Bergamo, diventato adulto a Roma, laureato al Dams di Bologna. Ha scritto una decina di libri, l’ultimo per Rizzoli.
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