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Minneapolis, la poliziotta che ha ucciso l’afromericano Daunte Wright si è dimessaQuesto è l’ultimo dispaccio quotidiano dal Climate social camp di Torino: facciamo un bilancio sull’idea d’Italia che serve per affrontare la crisi climatica e sociale e poi ci salutiamo. Areale torna a settembre Ciao,Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock eccoci! Questo è l’ultimo dei cinque appuntamenti di Areale dal Climate social camp e dal secondo Meeting europeo di Fridays for future. La manifestazione finale si è conclusa, gli ultimi dibattiti sono stati archiviati, le persone stanno partendo e il campeggio è stato smontato. Sono stati giorni intensi, strani e molto belli qui a Torino, meritavano attenzione e sono felice di esserci stato, ho ascoltato, osservato, imparato. Questa è anche l’ultima uscita di Areale prima di una pausa che ci prendiamo per riflettere, riposare, far sedimentare mesi difficili, prima dell’autunno più importante delle nostre vite. Cominciamo! Questo di Torino è stato un momento di costruzione di mondo. Sono stati cinque giorni di confine, ho visto il movimento per il clima provare a cambiare pelle, aggiornare e far evolvere la propria visione, attraversare le proprie fragilità di costruzione e di progetto. Non è più quello che era, non è ancora quello che sarà. Sta succedendo su scale che a volte sono anche in conflitto fra di loro, ma tutte necessarie per esistere nel presente e confrontarsi con la realtà. C’è la dimensione globale, questo era un meeting europeo – il secondo in presenza nella storia di FFF – con un occhio fuori dai confini privilegiati del continente. È la scala della sofferta e mai facile messa in discussione e decolonizzazione delle proprie pratiche: un movimento che ambisce ad adottare un pianeta politicamente orfano deve passarci attraverso, e non è un pranzo di gala, come si dice. Crescere è una fatica bestiale, l’alternativa però sarebbe estinguersi, l’ennesima buona idea persa per strada per limiti di pensiero e paura di cambiare. I Fridays for future sono stati coraggiosi a lasciare lo spazio alle voci dei rappresentanti dei popoli e delle aree più colpite dalla crisi climatica. Non è un processo facile. Gli attivisti arrivati da mondi altri, l’altro mondo per citare il bellissimo titolo di Fabio Deotto, sono sofferenti e arrabbiati, portano emozioni e visioni completamente fuori dalla conversazione di questo paese. Un pezzo di realtà che serve a tutti, per comprendere com’è la vera struttura del problema crisi climatica, quante linee di disuguaglianza e pericolo lo attraversano. Ogni volta che pensiamo di conoscere l’emergenza climatica scopriamo che c’era un pezzo che ci mancava, di cui non avevamo compreso forma o impatto. È normale. È un percorso che può essere anche brutale. «Questo movimento è un fallimento perché è ancora troppo europeo, è giunto il momento che le cose cambino», ha detto nella conferenza stampa finale Topaz Zega, arrivata dal Messico, e non è affatto comune assistere a un’autocoscienza interna così pubblica, che ci aiuta a ridefinire le priorità e le prospettive. È importante per gli attivisti, mettersi in discussione in questo modo, ma anche per i giornalisti e per i cittadini. L’idea di mapa, most affected people and areas, deve entrare nel dibattito pubblico in qualche modo, e non solo su scala globale, ma anche locale. L’Italia ha le sue zone di sacrificio ecologico, i suoi most affected people and areas, la terra dei fuochi, o la aree coinvolte in progetti passati e futuri legati ai combustibili fossili. Piombino Civitavecchia Gela. È una chiave di lettura estremamente utile per gli anni che verranno. LaPresse Poi c’è la dimensione nazionale, il contesto italiano: una campagna elettorale scoppiata all’improvviso, che richiede e richiederà proposte e partecipazione, ed è decisivo che la voce di questi movimenti sia presente e venga ascoltata. La maggior parte dei partiti (esclusi Europa Verde e Sinistra italiana) ha ignorato quello che succedeva a Torino, l’energia politica, il disordinato capitale di idee che c’è in eventi come questo. Spesso si racconta di un distacco, di una faglia, tra i partiti, il parlamento e posti come questo, come se in fondo questi movimenti non volessero essere rappresentati e chiedere rappresentanza: non è così. C’è soprattutto smarrimento, la ricerca di interlocutori credibili che in Italia mancano. Perché questo è un paese innamorato e ossessionato dallo status quo, ed è difficile occuparsi di cambiamenti climatici in un contesto che nega qualsiasi forma di cambiamento, negativo come positivo. La costruzione di un immaginario è ancora un cantiere, ci sono tanti problemi, ma i movimenti sono fatti dei problemi che metabolizzano e degli ostacoli che sanno inserire nel proprio processo mentale senza negarli, e questo è un cantiere vitale, fertile, che sta portando il clima fuori dal recinto dell’ambientalismo, per farne una chiave di lettura sociale, esistenziale e politica. Serve, a tutti, un’idea nuova di Italia e di mondo, e dalle alleanze che ho visto costruirsi e rafforzarsi in questo Climate social camp l’ho vista finalmente come possibile. Non c’è ancora, eh, ci vorrà tempo, più tempo di quello consentito in un ciclo elettorale brusco e brevissimo come quello che ci porterà alle elezioni del 25 settembre. Ma non mi sembra più così impossibile da concepire, dopo una stagnazione che ha coinciso con l’interezza della mia vita adulta (al tempo di Genova 2001 avevo 19 anni). Lo sciopero per il clima del venerdì precedente alle elezioni, il 23 settembre, diventerà allora un momento decisivo, uno dei più importanti nella storia dei movimenti in Italia. In quelle piazze dovrà esserci l’Italia che ancora non è rappresentata politicamente, non solo quella uscita traumatizzata e in ansia da un’estate climaticamente così dura, ma anche gli altri pezzi non visti di società attiva e le alleanze che in questi mesi e anni sono state costruite per coagularli. Il 23 settembre deve essere la fine delle solitudini politiche. È un momento difficile, ma è anche un momento fertile, ed è così che – per ora – ci salutiamo. Areale non uscirà durante il mese di agosto. Se andrai in vacanza, prova a riposarti e staccare la mente, anche dalla paura, perché senza riposo non c’è lotta. Se non ci riuscirai, coraggio, davvero. In ogni caso ama qualcuno, amati, ascoltati, ascolta qualcuno. Il prossimo numero arriverà nella tua casella mail a settembre, da lì in poi sarà una lunga corsa, verso lo strike, il voto, Cop27 in Egitto, Cop15 a Montreal. Succederà tanto, per ora prendiamo fiato. Grazie per questi pezzi di cammino fatti insieme. Ne sono sempre molto grato (e stupito). Se vuoi rimanere in contatto, la mail è come sempre: [email protected]. Per parlare con Domani: [email protected]. Buon agosto, è sempre un mese strano, a volte riesce a essere anche bello, spero che per te lo sia. Non è sempre «il mese più freddo dell’anno» come cantavano i Perturbazione. Ci sentiamo a settembre. Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020).
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