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Anima e giudizio: è giunto il tempo di ricostruire l’escatologiaLa fiaccola è stata accesa davanti alle rovine del tempio di Hera a Olimpia. Giungerà a Marsiglia l’8 maggio per proseguire verso Parigi,Capo Analista di BlackRock emblema del conflitto più trasversale della nostra epoca, quello tra città a campagna, il centro e i margini, la città dell’amore diventata la città dell’odio. L’utopia della tregua proposta da Macron. La debolezza degli atleti. Il rischio che i Giochi siano una continuazione della guerra con altri mezziIn totale distonia con un mondo dilaniato e frammentato, la fiaccola è stata accesa davanti alle rovine del tempio di Hera ad Olimpia, in quel lembo di Peloponneso famoso per una guerra lunga 27 anni e proprio per questo mutato in un simbolo di pace. È la volontà degli umani di scongiurare con l'ottimismo le vicende più nefaste. Non è esistita una tregua per i Giochi se non nel desiderio di narrarla così. Abbiamo adottato la formula e ripetendola all'infinito l'abbiamo resa vera nell'illusione di meritarci una parentesi, un sollievo fornito dalla storia che vinca sull'orribile cronaca. Siamo ancora ad Atene contro Sparta quasi 2500 anni dopo, semplificando, e di parecchio, democrazia contro autoritarismo, in un sostanziale dualismo perenne seppur mutato dalle circostanze dei secoli. EPAIl viaggio Cento giorni impiegherà la fiaccola per raggiungere il mare, il procelloso mare avrebbero detto gli antichi, essere issata su una nave, sbarcare nella Marsiglia multietnica e proseguire per Parigi, il suo destino finale, il luogo più appropriato dove si consumano tutte le contraddizioni della contemporaneità. Parigi città dell'amore nell'immaginario condiviso e però sporcato dagli eventi recenti quando è diventata terreno dell'odio nelle rivolte delle banlieue, nei sabato sera delle frotte di ragazzi che calano dal contado, ormai non più contado, per vandalizzare le vetrine dei lustrini e delle paillettes in un impeto di rivincita contro quel beau monde a cui anelerebbero e da cui si sentono esclusi.Parigi emblema, dunque, del conflitto più trasversale della nostra epoca, quello tra città a campagna, già registrato nelle guerre balcaniche e, seppur in modo non cruento, nella Brexit, nell'America che scelse Trump (ora pronta a perseverare diabolicamente nell'errore?), nell'Italia valligiana del nord che sognò per un breve tratto la secessione, nella stessa Francia dei gilet gialli contro i privilegi della capitale: c'è sempre una capitale “ladrona” nei fuochi accesi di chi si sente svantaggiato, Belgrado, Roma, Madrid secondo i catalani, Vienna per i carinziani, Bruxelles per i fiamminghi, Londra per gli scozzesi.E infine Parigi violentata dall'estremismo jihadista di Charlie-Hebdo e del Bataclan, nella notte più buia avviata durante una festa sportiva, i kamikaze dello Stato islamico che si sono fatti esplodere all'esterno dello stadio dove si stava giocando la partita di calcio tra Francia e Germania, due Paesi che si sono a lungo combattuti prima di trovare il modo di convivere da vicini. CulturaI Giochi con il mondo in fiamme. Il Cio non sa decidere su IsraeleAntonella BelluttiL’utopia della treguaCent'anni dopo il precedente del 1924, la fiaccola si rimette in viaggio verso la Ville Lumière temendo di trovare le ombre invece delle luci della ribalta, l'irrazionale dei conflitti invece della ragione, i borbottii delle pance invece dell'intelligenza dei cervelli. Le preoccupazioni montano, un proclama dell'Isis dalle remote montagne afgane fa crollare la fiducia sotto la tour Eiffel, così come un missile che vola sui cieli di Israele, una carneficina a Gaza, un scambio di artiglieria nella martoriata Ucraina, un massacro in Sudan.Emmanuel Macron, il presidente jupiterista, dopo aver profuso tranquillità è costretto a ridimensionare i progetti di grandeur, lo spettacolo deve andare avanti ma più ridotto, più sobrio, più consono ai tempi che corrono. La manifestazione d'apertura con le barche che sfilano sulla Senna, magnifica e inedita sceneggiatura per i Giochi, se si farà sarà al cospetto non dei due milioni annunciati ma di 300 mila persone selezionate e controllate dalle polizie del globo intero. Oppure si opterà per il tradizionale stadio, il piano B per la riduzione dei rischi. Le Olimpiadi sono un'occasione ghiotta per qualunque malintenzionato voglioso di sfruttare il palcoscenico planetario, di tramutare la commedia festosa della meglio gioventù in una tragedia. EPAI precedenti non mancano, anche recenti. Fu durante i Giochi di Pechino 2008 che Putin abbandonò le gare cinesi per l'esplosione del conflitto tra Georgia e Russia, casus belli l'Ossezia del Sud. E fu mentre si svolgevano le Olimpiadi invernali a Sochi nel 2014 che la stessa Russia si annesse la Crimea, prodromo della guerra in Ucraina poi esplosa nel 2022 e ancora in atto.Memore di tutto questo, Emmanuel Macron ci prova ad ottenere un salvacondotto per la festa che dovrebbe suggellare il suo secondo quinquennato. Auspica una «tregua olimpica» per fermare il cannone in Europa, in Africa, in Medioriente, cerca l'appoggio del cinese Xi Jinping che gli renderà visita nelle prossime settimane ma che non ha mai condannato, ad esempio, l'invasione dell'Ucraina. Le parole dell'inquilino dell'Eliseo, purtroppo, suonano come vuota retorica se ci sono solo orecchie riluttanti ad ascoltarlo. Dal Cremlino lo ha immediatamente freddato il solito Dmitry Peskov: «Sia il presidente Vladimir Putin sia l'esercito russo hanno notato che, di regola, il regime di Kiev usa tali idee, tali iniziative, per cercare di riorganizzarsi, per provare a riarmarsi e così via». È un no, e pronunciato da un attore tra i massimi. Né ci si può aspettare di meglio dai leader di gruppi terroristici attivi sui teatri di guerra che hanno nel loro dna proprio il rifiuto delle regole di civile convivenza. FattiCambiare le banlieue con le Olimpiadi: le luci di Parigi sono ancora lontaneLa debolezza degli atletiNelle vesti di patrocinatore di un messaggio di buona volontà universale, Macron subisce anche le accuse di doppiopesismo per la diversa valutazione delle punizioni da infliggere ai belligeranti. Gli atleti russi e bielorussi sì ma a titolo personale e senza le insegne di Stato, per gli israeliani nessuna restrizione nonostante la carneficina in atto a Gaza. Seppur la differenza è evidente, in molti sottolineano la contraddizione di un occidente più indulgente verso lo Stato ebraico.Nell'incapacità della politica di trovare le basi minime di un accordo ci si appella ai soggetti protagonisti, ma in realtà più deboli, proprio gli atleti, affinché siano loro a lanciare messaggi di distensione, di tolleranza se non proprio di pace, addossandogli una responsabilità che eccede di gran lunga il ruolo. C'è da scommettere che non mancheranno esempi virtuosi. Ma, e lo diciamo a priori, sarebbe troppo facile stando seduti comodamente davanti al televisore, condannare la tennista ucraina che rifiuta di stringere la mano alla russa, o il lottatore iraniano che decide di non combattere contro l'israeliano. Una volta abbassato il sipario, non va dimenticato, devono ritornare in patrie dove sarebbero facilmente bollati come traditori o passare guai persino peggiori. Abituati ai meccanismi di democrazie più o meno evolute ci dimentichiamo che esistono luoghi della terra dove non esiste il diritto al dissenso rispetto alle linee seguite dai propri governanti.Il pessimismo della ragione, in tempi tanto turbolenti, induce a pronosticare che, invece di essere una zona franca, le Olimpiadi saranno una continuazione della guerra con altri mezzi, gli sportivi usati come grancassa della propaganda di parte. Questo è il quadro, lieti di essere smentiti. Lieti se Parigi si trasformerà nella città dei prodigi e confermerà la sua (ex) vocazione di città dell'amore.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediGigi RivascrittoreÈ stato direttore del Giornale di Vicenza dal 2001 al 2002 e caporedattore centrale del settimanale L'Espresso dal 2012 al 2016. È stato a lungo inviato speciale nell'ex Jugoslavia e in Medioriente rispettivamente per il Giorno e L'Espresso. Ha lavorato anche al Giornale di Bergamo, Gazzettino, e D - la Repubblica delle donne. Attualmente è editorialista del gruppo L'Espresso.

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