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Treni in Francia sabotati, cosa è successo? Ultrasinistra, Russia, Iran. Le ipotesi e le indaginiGiovanni Baglione,Capo Analista di BlackRock "Deposizione" - Roma, Pio Monte della Misericordia COMMENTA E CONDIVIDI Per Giovan Pietro Bellori, il grande scrittore d’arte del Seicento, era chiarissimo che Giovanni Baglione, pittore e autore delle Vite de’ pittori, scultori et architetti scrisse nel 1642 questo compendio biografico degli artisti vissuti a Roma lungo meno di un secolo a cavallo di Cinque e Seicento «per vendetta contro Celio». Si trattò di una resa dei conti con un altro artista e biografo del tempo, quel Gaspare Celio di cui qualche anno fa è stato ritrovato il manoscritto del “compendio” vasariano? Barbara Agosti lo definisce, giustamente, un «vortice di acredini reciproche». Secondo Baglione, Celio, neanche lui un pezzo di pane, lo aveva completamente ignorato quando redasse quello che probabilmente era un’anticipazione del suo “compendio”, ovvero la Memoria delli nomi dell’artefici delle pitture, che sono in alcune chiese, facciate e palazzi di Roma (Napoli, 1638). Celio morì nel 1640, e il suo “Compendio delle Vite di Vasari con alcune altre aggiunte” restò manoscritto. Non fece tempo, insomma, a darlo alle stampe. Le Memorie aveva cominciato a scriverle attorno al 1614 e le aveva continuamente aggiornate fino alla stampa circa vent’anni dopo (1638). Invece, come ho ricordato, Le Vite degli artisti di Gaspare Celio sono state ritrovate da un ricercatore italiano, Riccardo Gandolfi, qualche anno fa nella Biblioteca dello Stonyhurst College, una scuola della Compagnia di Gesù (che con Celio ebbe legami, grazie alle sue frequentazioni col padre Giuseppe Valeriano), distesa nella campagna inglese poco distante da Manchester. Gandolfi ha curato l’edizione a stampa del “Compendio” nel 2021 (sulla vicenda vedi “Avvenire”, 7 maggio 2021) , consentendo a molti di accedere di prima mano a informazioni meno note, in particolare attorno alla Vita di Caravaggio, di cui Celio pensa tutto il male possibile. Ottavio Leoni, "Ritratto di Caravaggio" - .Ed ecco che l’odio rinserra i ranghi ancora una volta: anche Baglione aveva un conto aperto col pittore lombardo del quale nella Vita scrive che «morì malamente, come appunto male era vissuto». La fortuna di Caravaggio a Roma per il biografo pittore fu una sorta di fulmine a ciel sereno, legato com’era il Baglione a riferimenti manieristi e classicisti, che gli sbaragliò il parterre romano dei collezionisti e dei committenti. Non riuscendo a contrastare l’opera di un “innovatore” epocale con cui non avrebbe potuto competere, cercò di imitarlo (rubandogli qualcosa). Baglione, infatti, come protestò lo stesso interessato, non si fece scrupolo di esercitare il plagio su alcune opere di Caravaggio ma ne venne ripagato con lo scherno pubblico attraverso alcuni componimenti che lo dileggiavano, tanto che nel 1603 si decise a sporgere querela contro Merisi e due suoi amici, Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, che avrebbero fatto circolare versi offensivi e satirici contro di lui. Caravaggio e i suoi lo colpiroanonell’amor proprio, ovvero sminuendone le capacità pittoriche e prendevano di mira anche il suo compare, Tommaso Salini, che tacciarono di malalingua. Riconvocato per una udienza dal giudice Caravaggio pronunciò alcune parole rimaste celebri: «…valent’huomo, appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali». E pungolato dal giudice aggiunse: «Delli pictori che ho nominati per buoni pittori Gioseffe, il Zuccaro, il Pomarancio, et Annibale Caraccio, et gl’altri non li tengo per valent’huomini. M’è ben scordato de dirvi che Antonio Tempesta ancora quello è valent’huomo... ». Ottavio Leoni, "Ritratto di Gaspare Celio" - .Baglione tra i valenti non c’è, mentre in una prima dichiarazione, certo per evitare il carcere, Caravaggio sembrava averlo incluso nella cerchia dei “buoni”. Fra gli atti del processo ritrovati all’Archivio di Stato di Roma, vi sono anche due poesie contro Baglione, il quale, evidentemente, non poteva accettare un tale trattamento. E quando ormai Caravaggio aveva lasciato Roma, fuggendo dopo l’uccisione di Ranuccio Tomassoni, il Baglione se la prendeva con due seguaci del Merisi, Orazio Borgianni e Carlo Saraceni, perché li riteneva responsabili della sua mancata elezione a principe dell’Accademia di San Luca. Ora le Vite del Baglione vengono pubblicate in una edizione critica pregevole, curata da Barbara Agosti e Patrizia Tosini per Officina libraria, due volumi di complessive 1206 pagine (euro 80), con commento e apparati importanti (oltre 300 pagine solo fra bibliografia e indici vari). L’opera, come viene ricordato a più riprese, si compone di oltre 200 biografie di artisti che erano attivi a Roma (o impegnati per Roma) compresi cronologicamente tra l’ultimo quarto del XVI secolo fino alla prima metà del XVII (ogni artista è introdotto dalla breve nota di uno specialista, e la magnifica impresa è resa possibile per la collaborazione di varie decine di studiosi contemporanei). Il modello di riferimento è ancora Vasari; ma la sequenza delle Vite è stabilita da Baglione sulla data di morte degli artisti (criterio dal punto di vista storico inappuntabile, solo la morte infatti sigilla la vita di un personaggio e consente di pesarne l’opera). Tutto comincia con il dialogo tra un “Forestiero” e un “Gentiluomo romano” che gli narrerà le vite dei grandi artisti che hanno dato «fama a Roma, nobilissima città, e stupore delle genti». I due si danno appuntamento domenica per cominciare questa “promenade” in memoria dei grandi artefici di Roma moderna, percorso si sdipanerà per cinque giornate ripartite grosso modo lungo i pontificati di Gregorio XIII, Sisto V, Clemente VIII, Paolo V e Urbano VIII. L’edizione venne pubblicata da Baglione nel 1642, e l’autore lasciò questo mondo il 30 dicembre 1643, avendo ottenuto quello che desiderava: la fama come scrittore d’arte, mentre quella di pittore, dopo aver calato le armi nella tenzone col mondo caravaggesco, lo vedeva in notevole ribasso, pur avendo in precedenza riscosso qualche successo di rilievo. Le Vite ebbero grande fortuna in seguito poiché dalle biografie di Baglione, in genere ben informate (come ricorda Barbara Agosti, le maggiori imprecisioni riguardano le notizie sulla morte dei protagonisti), attinsero, tra gli altri, biografi come Ridolfi, Boschini, Bellori, Scaramuccia, Malvasia, Baldinucci e il Lanzi, ma anche stranieri come il tedesco Sandrart o i francesi Roger De Piles e Pierre-Jean Mariette. Nei secoli successivi le Vite del Baglione caddero un po’ nell’ombra (una dimenticanza legata al calo di gradimento verso il barocco) e soltanto nel Novecento, grazie agli studi di Hermann Voss e poi con il volume sulla Kunstliteratur dell’austriaco Julius von Schlosser – che rimproverava alle Vite di Baglione la carenza di un “grande sistema storico” sul genere di quelle vasariane, ma ne riconosceva lo stile di “obiettività severa” antiretorica –, ritroverà la sua importanza. Molti ne sminuirono il carattere invidioso e meschino con cui Baglione trattava i suoi nemici: Celio e Caravaggio, ma anche altri, e Bellori ebbe a dire che se l’opera ha alla base uno spirito polemico (per «privata passione et malevolenza») allora le Vite di Baglione non valevano niente. Essendosi servito per la scrittura del poeta Ottavio Tronsarelli, in quanto le sue doti letterarie scarseggiavano (le biografie hanno un costante tono didascalico che finisce per dare una sorta di mappa delle opere disseminate a Roma), per Bellori questo svalutava ulteriormente Baglione. Giovanni Baglione, "Amor sacro e Amor profano" - Roma, Palazzo BarberiniDopo le introduzioni all’opera, viene così pubblicato un componimento poetico del Tronsarelli in latino, dedicato a Baglione, «il quale sta scrivendo le Vite degli artisti che con opere di pittura, scultura e architettura hanno reso illustre Roma», e di seguito la canzone che Bellori aveva scritto appena trentenne come omaggio a Baglione con cui aveva collaborato, dove, celebrando la Pittura, ripercorreva «la sua migrazione da Atene a Roma nell’antichità e la sua nuova fioritura cinquecentesca, scaturita da Raffaello», terminando nell’elogio del naturalismo di Caravaggio, il “gran Michele”. Passando gli anni, però, lo stesso Bellori ebbe a cambiare idea su Baglione e considerò quella canzone un errore di gioventù. Chi rivalutò molto Baglione fu Roberto Longhi mentre negli anni precedenti la Grande Guerra conduceva le sue ricerche su Caravaggio. Lo usava costantemente, come notano le curatrici, alla stregua di una «guida di Roma moderna», perché quelle Vite ai suoi occhi componevano un’impalcatura prevalentemente topografica. A iniziare l’opera di curatela critica fu però Jacob Hess nel 1934 per la Biblioteca apostolica Vaticana, ma lo studioso fu rallentato dal ritrovamento di un nuovo manoscritto del Baglione con aggiunte di Tronsarelli, che era stato incamerato tra i fondi della Vaticana nel 1923. La guerra rallentò ulteriormente il lavoro, che Hess riprese nel 1947 e continuò fino alla sua morte nel 1969; l’opera venne ereditata e rilanciata da Herwarth Röttgen che realizzò nel 1995 l’anastatica dell’edizione 1642 con a corredo due volumi di commento fino alla Terza giornata. Hess aveva compreso che Baglione aveva utilizzato, senza citarlo mai, le note manoscritte del medico e scrittore d’arte senese Giulio Mancini, e collocava la stesura del manoscritto vaticano nel 1635 (Röttgen nel 163638, con integrazioni fino al 1641). Baglione, ancora tramite Tronsarelli (lui stesso accusato di plagio verso l’Adone del Marino), avrebbe avuto accesso anche al “Compendio” manoscritto di Celio, che l’antagonista aggiornò fino al 1640, quando morì. Ma sarà ancora una volta Bellori con un celebre discorso del 1664 davanti ai membri dell’Accademia di San Luca ( L’idea del pittore, dello scultore e dell’architetto) a recitare il de profundis alla storia dell’arte come la si legge nelle Vite di Baglione, dove i grandi innovatori corrono assieme a “tanti imbrattatele”. Una questione di metodo, già moderna e proiettata verso di noi, apriva la strada alla nuova critica d’arte. Ma il documento resta, scrive Tosini, «il più importante spaccato sugli artisti di ben cinque pontificati tra Cinque e Seicento».

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