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Finanza e mercati | Pagina 11 di 12Il tribunale amministrativo di Parigi ha condannato lo stato francese a riparare il danno ecologico causato dallo sforamento delle emissioni di carbonio tra il 2015 e il 2018. La vittoria francese si aggiunge a quelle delle climate litigation in Germania,analisi tecnica Olanda e Belgio. In Italia la prima causa contro lo stato è stata lanciata lo scorso giugno e chiede una riduzione delle emissioni del 92 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Con una sentenza storica lo scorso 14 ottobre il tribunale amministrativo di Parigi ha condannato lo stato francese «a prendere tutte le misure utili a riparare il danno ecologico», causato dallo sforamento delle emissioni di carbonio tra il 2015 e il 2018.  La sentenza La sentenza impone allo stato una riduzione delle emissioni di 15 milioni di tonnellate di carbonio entro il 31 dicembre 2022. La decisione arriva a seguito di una lunga battaglia portata avanti dalle organizzazioni ambientaliste Notre Affaire à Tous, Fondazione Nicolas Hulot, Greenpeace Francia e Oxfam Francia, che nel 2019 hanno intentato una causa contro lo stato francese per inazione climatica. Una prima vittoria era già stata ottenuta lo scorso febbraio quando i tribunale aveva riconosciuto per la prima volta la responsabilità dello stato francese nella gestione della crisi climatica e il mancato rispetto degli impegni adottati per ridurre le emissioni. La richiesta delle organizzazioni era in realtà ancora più ambiziosa e puntava ad un obiettivo di riduzione di 62 milioni di tonnellate di carbon emission, pari allo sforamento nel triennio 2015-2018 calcolato dall’Alto consiglio per il clima. Il giudice ha deciso, tuttavia, di diminuire questa quota a fronte del periodo legato all’emergenza Covid, in cui complessivamente la Francia avrebbe inquinato molto di meno. «La nostra rappresenta una vittoria storica. Perché da ora in poi lo stato sarà costretto ad agire. Il prossimo anno grazie a questa decisione il governo dovrà certamente raddoppiare gli sforzi di riduzione e se non lo farà abbiamo già in programma di chiedere al tribunale un’immediata sanzione finanziaria», racconta a Domani Cécilia Rinaudo, direttore esecutivo di Notre Affaire à Tous. Il governo a questo punto potrebbe ricorrere in appello, ma fino a nuova decisione è comunque tenuto a rispettare la sentenza. «Presto ci saranno le elezioni presidenziali in Francia e quello che pretendiamo adesso è che il prossimo governo si impegni per rispettare quanto stabilito dalla corte. Nessun futuro presidente potrà più permettersi di ignorare una simile sentenza», aggiunge Cécilia. Giustizia climatica in Europa In tutta Europa negli ultimi anni si sono moltiplicate le cause degli attivisti contro gli stati per chiedere maggiore «giustizia climatica».  In Germania lo scorso aprile la Corte costituzionale di Karlsruhe ha bocciato la legge tedesca sulla protezione dell’ambiente (Klimaschutzgesetz), dando ragione alle associazioni ecologiste, tra cui i Fridays for future, che chiedevano degli obiettivi di riduzione più stringenti accusando lo stato di mettere «a repentaglio i diritti dei giovani e delle future generazioni».  Dopo la decisione della corte lo stato tedesco ha rivisto la legge alzando il target di riduzione al 65 per cento entro il 2030 e anticipando l’obiettivo di neutralità climatica al 2045.  Lo stesso è avvenuto anche in Belgio, dove a giugno il tribunale di Bruxelles ha chiesto allo stato di adottare misure per prevenire gli «effetti dannosi» del cambiamento climatico. E ancora, in Olanda il 21 dicembre 2019  la causa intentata dall’Ong olandese Urgenda insieme ad altri 886 cittadini si è chiusa con un’importante vittoria, tanto che il governo è stato obbligato a ridurre entro la fine del 2020 le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 25 per cento rispetto al 1990.  Parallelamente l’organizzazione Urgenda ha deciso di creare anche un network internazionale per supportare le cause contro gli stati (Climate litigation network). «Dopo il successo dei contenziosi climatici promossi nei Paesi Bassi, in Irlanda, in Belgio e in Germania, il risultato raggiunto dal caso francese rappresenta un altro importante passo in avanti per il movimento di giustizia climatica in Europa. La condanna dello stato francese mostra che gli impegni presi nel contrasto all’emergenza climatica non possono rimanere lettera morta: si tratta di obblighi vincolanti che il governo è giuridicamente tenuto ad implementare», dichiara a Domani Filippo Fantozzi, legal associate del Climate Litigation Network - Urgenda. La situazione in Italia Nel nostro paese, intanto, lo scorso giugno è stata aperta la prima causa contro lo stato italiano per inazione climatica. Oltre 200 ricorrenti tra associazioni e cittadini hanno chiesto al tribunale di Roma di imporre allo stato una riduzione delle emissioni del 92 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. A differenza della Francia, però, l’impianto normativo italiano risulta molto debole perché ad oggi non esiste una vera e propria legge che imponga un tetto all’emissioni di gas climalteranti ma solo una strategia nazionale per il clima (Piano nazionale per l’energia e il clima) che fissa degli obiettivi. «In Francia il tetto del carbon budget è stabilito per legge ed è quello che dovrebbe succedere anche qui: per questo abbiamo fatto causa. Pensiamo che questa causa sia uno strumento formidabile per fare pressione sullo Stato affinché moltiplichi i suoi sforzi nella  lotta al cambiamento climatico», conclude Lucie Greyl di A Sud, primo ricorrente della causa. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediMadi Ferrucci Laureata in Filosofia e diplomata alla scuola di Giornalismo della Fondazione Basso di Roma. Assieme a due colleghi ha vinto il Premio Morrione 2018 e il Premio Colombe d'Oro per la Pace 2019 con un’inchiesta internazionale sulla fabbrica di armi RWM in Sardegna. Ha lavorato a The Post Internazionale nella sezione news e inchieste. Collabora con Economiacircolare.com, il Manifesto e altre testate nazionali. Fa parte del collettivo di giornalisti freelance “Centro di giornalismo permanente".

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