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Capelli si drizzano nel deserto, i turisti si divertono ma il fenomeno mette a rischio la loro vitaPer l’establishment confindustriale la transizione ecologica e le politiche europee rivolte a favorirla sono e saranno sempre di più per l’industria italiana un “bagno di sangue” e vanno perciò rallentate il più possibile. L’economia reale italiana,ègiàProfessore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock con migliaia di imprese anche del settore manifatturiero, sembra muoversi in direzione opposta: siamo il paese europeo che ricicla più rifiuti trasformandoli in nuove materie prime e già produciamo quasi il 40 per cento dell’energia elettrica con fonti pulite e rinnovabili. La transizione ecologica, si dice, non è un “pranzo di gala”. Vero, va governata e orientata con saggezza. Mettersi all’opposizione del Green Deal, come fa Confindustria, è pura miopia. “Svolta green, costi fuori controllo”: così il grande titolo di prima pagina del Sole 24 Ore del 20 aprile. Un titolo forte per una serie di articoli che bene rappresentano le preoccupazioni di Confindustria – sostanzialmente la sua opposizione – rispetto alle politiche europee del Green Deal, un titolo coerente con molte prese di posizione del presidente degli industriali e di gran parte della politica italiana, dalla maggioranza al cosiddetto Terzo Polo. Quindi tutto normale? No se proviamo a vedere le cose con gli occhi di un osservatore privo di pregiudizi, che guardi all’economia reale di questo paese. Nell’economia circolare l’Italia vanta il record europeo di riciclo (ricicliamo quasi l’80 per cento di tutti i rifiuti, urbani e speciali: più di ogni altro paese dell’Unione, il doppio della media europea), nella produzione delle energie rinnovabili nonostante gli ostacoli di una politica distratta se non ostile e vari fenomeni di nimby (alcuni alimentati da un diffuso “comitatismo” che usa slogan verdi per contrastare la transizione ecologica) circa il 37 per cento dell’elettricità è non fossile e sul fotovoltaico abbiamo una delle percentuali più alte tra i paesi industrializzati (e le imprese di Elettricità Futura, associazione della stessa Confindustria, sono pronte a fare molto di più). Ancora, abbondano gli esempi di interi segmenti della nostra economia già decisamente “green”: per trovarne nomi e cognomi basta navigare qualche minuto nei siti di Fondazioni quali Symbola di Ermete Realacci o Sviluppo sostenibile di Edo Ronchi, oppure dare un’occhiata alle tante collaborazioni attivate da Legambiente che non a caso ha battezzato questa economia verde pienamente in campo come i «cantieri della transizione ecologica». Insomma, l’industria italiana è molto più avanti di chi la rappresenta. E non potrebbe essere altrimenti dato che la nostra manifattura (la seconda in Europa) per ragioni “fisiologiche” – la scarsità di materie prime – si è esercitata da sempre a un uso efficiente delle risorse ed è saldamente connessa, in questo, con le parti più dinamiche dell’Europa a cominciare dalla Germania. Opposizione miope Appare dunque sorprendente che una larga fetta dell’establishment italiano consideri il Green Deal europeo come una specie di salto nel buio cui ci costringerebbe una “banda” di euroburocrati. E dimentichi che questa prospettiva è nata prima del Covid, della guerra, della crisi energetica, ed è nata come una strategia industriale indispensabile certo per contribuire, come Europa, alla lotta urgente alla crisi climatica, ma anche e molto come la scelta altrettanto decisiva per sostenere la competitività del sistema industriale europeo nel mercato globale. Scelta, è bene sottolineare, che ha visto tra i suoi principali promotori e artefici non una Greta Thunberg salita inopinatamente al potere a Bruxelles, ma altre due donne molto meno giovani e molto più “moderate”: Angela Merkel e Ursula von der Leyen. La transizione ecologica, ripetono spesso i “frenatori” nostrani, non sarà un pranzo di gala. Ed è vero: ci saranno settori penalizzati, a partire da quelli oil&gas, occorrerà governarla evitando accelerazioni insostenibili dal punto di vista economico e agendo perché avvenga in modo socialmente equo. Ma mettersi alla ”opposizione” di questo processo, come fa e non da oggi Confindustria, è pura e grave miopia. A Bruxelles molto spesso il “sistema paese” non c’è: è distratto nella fase cosiddetta “ascendente” delle norme comunitarie e quindi latita quando c’è da far pesare le peculiarità positive dell’Italia, salvo poi accorgersi troppo tardi che si è penalizzato un settore che invece avrebbe meritato di diventare “best practice” da esportare. Ciò vale per il biogas fatto bene proposto dagli agricoltori italiani, anche in contrapposizione a scelte fatte nei paesi nordici non altrettanto rispettose dell’ambiente e della funzione che anche l’agricoltura, se virtuosa, può svolgere nella lotta ai cambiamenti climatici. E vale in maniera clamorosa nel caso della direttiva sulle “case green”. I rappresentanti italiani, del governo come del mondo imprenditoriale, dovrebbero difendere le eccellenze del nostro paese, dalla bioeconomia allo straordinario tessuto di piccole e medie imprese che hanno capito che la sfida ambientale non è solo un vincolo da rispettare ma una straordinaria occasione di nuova economia. Invece mettersi di traverso al Green Deal significa fare il contrario degli interessi nazionali, lavorare per il declino – economico, industriale, sociale – dell’Italia. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediRoberto Della Seta e Francesco Ferrante
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