Aperti i seggi per le elezioni presidenziali in RussiaG7, bilaterale Meloni-Tebboune: il più grande investimento italiano in Algeria in agricoltura sostenibile con B.F. SpaMacron: «Truppe in Ucraina se il fronte cede». Per gli Usa la Russia sta usando gas tossici
Trovata fossa comune all’ospedale al-Shifa con 49 corpi. Israele riapre il valico di Kerem ShalomQuesto è un nuovo numero di Areale,àeladisfunzionalitàtrading a breve termine la newsletter di Domani – a cura di Ferdinando Cotugno – sul clima e l’ambiente. I temi di questo numero sono l’eredità di Alexander Langer, le domande ecologiche che arrivano dal voto del 25 settembre, la bolla di metano nel Mare del nord, e un bellissimo documentario sull’attivismo e il potere della verità. Per iscriverti alla newsletter in arrivo ogni sabato mattina, clicca qui. Buongiorno, dunque, questa è la prima edizione di Areale di un’èra politica che in Italia si preannuncia difficile e buia. Non facciamoci scoraggiare, c’è tanto da vedere, capire e fare. Partiamo dai fari, perché i fari sono la punteggiatura dentro il buio. Più è buio, più i fari servono. Un faro sempre acceso qui sono il pensiero, l’opera e la vita di Alexander Langer, che non c’è più da molti anni, eppure c’è sempre. Il 28 settembre è uscita in libreria – pubblicata da e/o – una nuova edizione di La scelta della convivenza. È una raccolta su un tipo di convivenza che in apparenza non riguarda gli scopi di questa newsletter, e invece sì, ovviamente ci riguarda: la convivenza tra gli esseri umani. La pace e l’ambiente erano temi gemelli nel pensiero di Langer, e rileggere questi piccoli saggi coraggiosi è un modo per ricordarci che la pace è la prima forma dell’ecologia. Nell’introduzione Gianfranco Bettin parla del lavoro e del peso e della fatica di essere «portatori di speranza», una fatica che ha spezzato Langer. Che però ci lascia questo pensiero, che rilancio a te, prima di iniziare: «Non siate tristi, continuate in quello che era giusto». Le elezioni, dieci domande. Tra qualche settimana entriamo ufficialmente nel governo più a destra nella storia repubblicana italiana. Per quanto ce lo potessimo aspettare, fa comunque un certo effetto, servirà essere attrezzati. Tutto diventa all’improvviso ancora più importante. Sono state elezioni chiare nel risultato, ma allo stesso tempo difficili da leggere. C’è la storia di chi ha vinto, e poi ci sono le storie di chi ha perso. Non ho risposte, però ho un po’ di domande, che possiamo usare come punto di partenza per navigare questi cinque anni. Cosa è successo? Cosa succederà? Questi sono i miei dubbi. Uno. Si è tanto detto sull’ecologia di destra. Su cosa aggiunge, qual è la prospettiva, cosa sarà la transizione ecologica durante questa legislatura. Avevo scritto sul pensiero conservatore italiano alle prese col clima e l’ambiente già qui, era l’inizio del 2021. Le parole di Nicola Procaccini, responsabile ambiente di Fratelli d’Italia, avevano confermato quella visione all’ultimo congresso del partito. Al di là del merito, questa idea di conservazione della natura e di sovranismo ambientale è innanzitutto astratta, molto più idealista dell’ecologia «di sinistra», anche nelle sue versioni più velleitarie. Come sarà questo idealismo ecologista di destra al contatto con la realtà materiale delle cose? Per il tecno-governo di Draghi e Cingolani la transizione era un bagno di sangue. Per la destra mistica e «tolkeniana» cos’è? Due. Che ruolo avrà l’ipotesi nucleare nelle politiche del futuro governo? La mia sensazione è che il tema fosse più di Salvini che di Meloni e che in ogni caso servisse soprattutto a posizionarsi dentro politiche energetiche che lasciano nel presente pochi margini di azione. Con Salvini così debole anche l’atomo diventa più debole (per ora). Probabile che se ne allontanino fischiettando, al primo studio di fattibilità concreto (soprattutto per i costi). Tre. Il vero, primo campo da gioco delle politiche climatiche del prossimo governo saranno i negoziati sul Fit for 55, che sono stati già impostati dal governo procedente (e non in una chiave amica del clima). Finalizzazione di date, eccezioni e meccanica per il phase-out dell’auto endotermica, futuro del sistema ETS, adozione del meccanismo di aggiustamento alle frontiere per il carbonio dei prodotti che importiamo, fondi per la giusta transizione. Il futuro è lì, è un futuro che non possiamo sbagliare, anche perché rischiamo di avviare la de-industrializzazione dell’Italia. Meloni ha dimostrato che sulla geopolitica più ampia (Nato, Ucraina) non si sposterà dal solco tracciato, mentre potrebbe decidere di farlo su quella europea. Quattro. È un addendum al punto tre: vedremo il populismo energetico e climatico crescere? Ci sarà un ritorno del negazionismo? Un rifiorire dell’inattivismo? Sono possibilità reali, un governo non esiste solo per le policy e i decreti, ma anche per il contesto culturale che alimenta. Meloni e Salvini potrebbero nutrire la narrazione del Green Deal come nuovo grande capro espiatorio per i tempi difficili che attendono l’Italia. Cinque. Come sono andati i Verdi? Permettimi la metafora stantia dell’acqua e del bicchiere: mezzo pieno o mezzo vuoto? Hanno superato la soglia di sbarramento e tornano in parlamento dopo troppe legislature di assenza (mezzo pieno), ma sono passati dalla soglia dell’inesistenza a quella dell’impotenza abituale, rimanendo nell’orbita di quel 2, 3 per cento che hanno sempre avuto (mezzo vuoto), nonostante il boost dell’accordo con Sinistra Italiana e di candidature forti e simboliche come quelle di Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro. Perché la crisi climatica e la non credibilità ambientale degli altri partiti non sono riuscite a portare un risultato migliore ai Verdi? Cosa serve per avere un ambientalismo politico più forte in Italia? Sei. È un addendum al punto cinque: queste erano le prime elezioni nazionali in cui osservare un impatto elettorale dei movimenti per il clima. Quell’impatto non c’è stato, o è stato trascurabile, invisibile. Perché? Sette. Qual è il futuro dei movimenti per il clima, a questo punto? Avremo mai un modello alla Sunrise Movement negli Stati Uniti, una partnership solida e strutturale con la politica, per promuovere candidati, temi, istanze o partiti in modo più diretto ed esplicito? Oppure una parte del movimento userà questi cinque anni per decidere di smettere di seguire/implorare i partiti e di lanciarsi invece nella politica istituzionale, creando qualcosa che somigli a un partito? Otto. E poi c’è il Pd, con la sua ciclica, cronica crisi ogni volta che deve affrontare quella spiacevole occorrenza chiamata realtà. Il Partito democratico riuscirà a diventare un grande partito ecologista? Cosa serve affinché questo accada? Nove. Il Movimento 5 stelle sarà una realtà corposa anche nella prossima legislatura. Come si comporterà? Che evoluzione avrà la sua matrice ecologista, che è sempre stata viva, ma anche precaria, traballante, non del tutto scientifica? Il M5s è cambiato così tante volte che diventa difficile seguirne le evoluzioni. È l’unica grande forza politica italiana dotata di immaginazione (ed è un valore assoluto), ma è un’immaginazione senza credibilità, ed è spesso finita in un vicolo cieco. Dieci. Semplicemente: perché l’ambientalismo italiano non ha ancora prodotto personalità carismatiche, riconoscibili fuori dalla bolla e politicamente spendibili? Intermezzo: lo spazio del negazionismo È una storia istruttiva, questa. David Malpass è un consumato boiardo del potere repubblicano negli Stati Uniti. Ha lavorato con tutti i presidenti di quell’area da Reagan fino a Trump, del quale è stato anche consigliere economico. Da aprile del 2019 è presidente della Banca mondiale, dove era stato inviato proprio da Trump. Ne parliamo perché a un evento pubblico di qualche giorno fa, organizzato dal New York Times, gli è stato chiesto di rispondere ad accuse, che già circolavano, sul fatto di essere un negazionista climatico. La domanda diretta era se Malpass accettasse o meno il fatto che le emissioni antropogeniche hanno creato una crisi che porta a eventi meteo estremi. Insomma, le basi. Le basi delle basi. Malpass ha risposto con un laconico: «Non sono uno scienziato». Insomma, dimmi che sei un negazionista senza dirmi che sei un negazionista. Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved È diventato un caso internazionale in poco tempo, e si sono moltiplicate le richieste, finora ignorate, di dimissioni. È una storia importante per due motivi. Il primo è che la Banca mondiale è un’istituzione sempre più centrale in un mondo sconquassato da eventi estremi. Il suo mandato è alleviare la povertà prestando soldi a tassi più favorevoli di quelli di mercato. Le aree di intervento sono quelle critiche: risorse per la sanità, l’istruzione, l’energia e la lotta ai cambiamenti climatici. Come possa un organismo così cruciale essere guidato da un negazionista climatico è difficile da comprendere. E arriviamo al secondo punto, che è più ampio: come può – oggi, nel presente, in questo contesto – qualsiasi istituzione essere guidata da un negazionista dei cambiamenti climatici? Malpass è entrato in modalità gestione della reputazione, per salvare il salvabile. Ha mandato una nota interna allo staff nella quale scrive che: «È chiaro che le emissioni di gas serra dalle attività umane causano i cambiamenti climatici, e che l’aumento dell’uso di carbone, diesel e carburanti nelle economie avanzate e nei paesi in via di sviluppo sta creando un’altra ondata di crisi climatica». (Nota: non ha citato il gas). In un’intervista riparatoria alla Cnn ha detto: «Non sono un negazionista», dicendo che accetta tutta la scienza in materia. Tutto giusto, chiaramente, come è evidente che in questo momento sta parlando per salvare la propria posizione. Scoprire che il presidente della Banca mondiale è (o anche solo: è stato fino alla settimana scorsa) un negazionista è come scoprire che hai percorso centinaia di chilometri in autostrada con un guidatore che non aveva la patente. Accettare la scienza è la patente per avere posizioni di vertice nelle istituzioni nazionali e globali. Il minimo del minimo. Ricordiamocelo anche per l’Italia. Come far saltare un gasdotto Il sabotaggio del gasdotto Nord Stream 1 e 2 è purtroppo una parabola perfetta sul significato che ha vivere ancora in un’economia basata sui combustibili fossili e del prezzo che paghiamo per aver avviato la transizione con decenni in ritardo rispetto alle prove scientifiche sulla crisi climatica. Chi sia stato a sabotarlo ha un’importanza enorme nello scenario globale, ma al momento esistono soltanto ipotesi, ed è una verità che dal punto di vista fattuale sarà difficile conoscere. Però ci sono cose che possiamo osservare, e sono tutte preoccupanti. La prima è che questo sistema energetico basato su catene di distribuzione così globali e precarie è vulnerabile. Lo sapevamo già, ma questo è un ottimo modo per ricordarcelo. Un mondo fossile non è solo un mondo su un precipizio ecologico, è anche un mondo vulnerabile, pieno di punti di rottura a disposizione di chi ha lo stomaco di sfruttarli. Le parole più efficaci le ha trovate Wim Zwijnenburg, ricercatore sui conflitti e clima, che ha detto a Climate Home News che «prendere come bersaglio le infrastrutture dei combustibili fossili significa che con uno sforzo relativamente limitato puoi avere un impatto molto grande». Come far saltare un oleodotto è il titolo di un ormai famoso saggio di un ecologo svedese, Andreas Malm. Chiunque abbia danneggiato Nord Stream ha messo in pratica quella lezione, di fatto. Non servivano gli ambientalisti. (E la storia di sabotaggi, come ricostruiva lo stesso Malm, è effettivamente lunga). La seconda cosa che sappiamo è l’enorme danno ecologico prodotto da questo sabotaggio. Nessuna delle due infrastrutture al largo della Danimarca era operativa, ma entrambe contenevano gas. Non sappiamo quanto, possiamo fare delle stime, e quelle stime sono preoccupanti: tra 100mila e 350mila tonnellate di metano potrebbero essere state emesse nell’atmosfera. I due gasdotti non hanno alcun meccanismo di contenimento, quindi tutto quelle che fuoriesce dalla rottura va nell’atmosfera. Il metano è un gas che altera il clima, come la CO2. Ha effetti meno duraturi, ma anche fino a ottanta volte più potenti nel riscaldare il clima. Secondo esperti interpellati dal Guardian, prendessimo per buona la stima intermedia, 250mila tonnellate, sarebbe l’equivalente delle emissioni di 1,3 milioni di automobili in un anno. Greenpeace fa una stima ancora più alta: l’equivalente di 20 milioni di automobili in un anno. La discrepanza delle stime ci dice anche un’altra cosa: con un disastro di queste proporzioni siamo in un territorio non mappato. Sappiamo che è terribile, non abbiamo idea di quanto. La terza è un’informazione di contesto, non direttamente legata al disastro al largo della Danimarca, ma importante per il senso delle proporzioni e della disfunzionalità di questo sistema energetico. Viene da un’inchiesta della Bbc su quanto siano sottostimate le emissioni da flaring nelle estrazioni petrolifere in Iraq di BP, Eni, ExxonMobil, Chevron e Shell. Il flaring è la pratica di bruciare il gas in eccesso che fuoriesce dall’estrazione. C’è un impegno internazionale ad azzerarlo entro il 2030, e l’obbligo di riportarne in modo pubblico e trasparente le emissioni. L’inghippo scoperto dalla Bbc è che queste cinque aziende documentavano solo il flaring dei siti dove operano direttamente e non dove l’estrazione è affidata, per conto loro, a partner locali, a cui viene esternalizzata l’operazione. L’effetto è che quelle emissioni, per questo trucco contabile, non sono contate da nessuno, anche se riguardano il 50 per cento delle estrazioni. In pratica, al 2021, 20 milioni di tonnellate di CO2 equivalente emesse via flaring erano completamente invisibili. Non ne sapevamo nulla, e sono l’equivalente di 4,4 milioni di automobili in un anno. Emissioni invisibili, però con effetti reali. All the Beauty and the Bloodshed Ho visto al cinema All the Beauty and the Bloodshed, il documentario di Laura Poitras che ha vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Ne scrivo qui, prima di salutarci, perché penso che ci riguardi. Quando sono andato a vederlo, sapevo solo che parlava della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti e che aveva un titolo meraviglioso. Ne sono uscito come se fossi fatto di migliaia di luci tutte accese. È in realtà la storia di Nan Goldin, l’attivista e fotografa americana, l’artista che più di ogni altra aveva saputo catturare la bellezza, e la furia, e l’intimità, e il dolore di un’altra crisi, quella dell’epidemia di Aids negli anni Ottanta. All the Beauty and the Bloodshed è la storia di come Nan Goldin costruisce la sua voce e la sua reputazione, di come plasma la sua ricerca della verità, fragile e assoluta allo stesso tempo, e di come mette a disposizione quella voce e quella reputazione per combattere un’ingiustizia allo stesso tempo specifica e generale: i Sackler, i produttori dei farmaci antidolorifici che hanno causato una crisi da 100mila morti l’anno, sono stati anche tra i più generosi mecenati che l’arte nordamericana abbia mai conosciuto. Sapevano che quei farmaci erano pericolosi, che davano dipendenza, che trasformavano i pazienti in tossicodipendenti, ma hanno ignorato le evidenze e la scienza, perché contavano di più i ricavi e i margini, e hanno ripulito la propria immagine a colpi di donazioni a musei e istituzioni, molte delle quali avevano un’ala dedicata a loro e a quella generosità costruita, letteralmente, con la morte. Perché l’artwashing, come il greenwashing, non sono altro che questo: un grazioso culto della morte. Per combattere questo culto della morte costruito con gli strumenti della comunicazione aziendale, Nan Goldin entra nei musei dove le sue opere sono esposte, musei costruiti quindi anche intorno a lei e grazie a lei, ma ci entra da persona non grata, per protestare, con i modi e la capacità di visione che ha. Li stana, i cultori della morte, facendo un atto semplice: Goldin dice la verità. Senza cercare compromessi o un impossibile terreno comune di negoziato. Dice la verità, e combatte una battaglia piccola (perché i morti rimarranno morti e i Sackler rimarranno ricchi e liberi), ma decisiva, perché contro il culto della morte (che sia costruito per proteggere i profitti degli oppiacei o dei combustibili fossili), la verità è la cosa più forte che abbiamo. Per questa settimana è tutto. Per parlarmi (e mi fa piacere, parlami), l’indirizzo è [email protected]. Per comunicare con Domani, [email protected]. A presto, stai bene! Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020).
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