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Professore Campanella

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Amanda Knox a 15 anni dall'omicidio Meredith Kercher: "Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa"La scuola deve cambiare,Campanella ma per fare questo deve riconoscere e affrontare le impasse che oggi la incastrano. Forse se pensiamo a come usare lo strumento dell’autonomia scolastica potremmo immaginare di progettare dal basso un progetto collettivo di educazioneTutti gli articoli di Tempo pieno, la scuola di DomaniSei un/a insegnante? Puoi abbonarti a Domani con la carta del docente a soli 80 euroQualche giorno fa è uscito sempre su queste pagine un articolo di Monica Galfrè “Una, nessuna, centomila”: è un’analisi delle politiche scolastiche degli ultimi vent’anni che identifica in maniera corretta nell’autonomia la causa della crisi della scuola nel nostro paese. Quel progetto, che individuava nell’autonomia un’opportunità di cambiamento del sistema statalista e centralista e un meccanismo di attivazione sul piano locale delle istituzioni scolastiche per la lotta alle disuguaglianze e alla povertà educativa che ancora oggi le caratterizza (si veda al proposito il documentato libro di Giancola e Salmieri edito da Carocci), è intrappolato tra Scilla e Cariddi: la gabbia della burocrazia scolastica, da un lato, e un sistema di valutazione riduzionistico, dall’altro.Questa trappola è il substrato organizzativo sul quale si sono innestati i dispositivi del New Public Management. Questo dà luogo a un complesso ibrido: uno sfumato assemblaggio neoliberista, nel quale convivono antichi elementi di statalismo e nuovi discorsi manageriali. Tale mélange indica che la contestualizzazione dei discorsi dominanti dipende, come conferma la ricerca sul piano internazionale, dalla storia delle politiche scolastiche nei diversi paesi. CulturaUna, nessuna e centomila. La crisi della scuola italiana viene dall’autonomia scolasticaMonica Galfréstorica Uscire dall’impasse Si può uscire da questa gabbia? Naturalmente sì, ma bisognerebbe dotarsi delle armi dell’immaginazione e si potrebbe dire che sarebbe necessario l’esercizio di una politica che si sappia pensare maiuscola. Bisognerebbe infatti riaprire la discussione sulla relazione tra scuola e società. Non è semplice farlo, perché neanche la pandemia è riuscita a sviluppare una riflessione e un dibattito pubblico sul tema. I documenti del Pnrr, da questo punto di vista, sono deludenti. Sono stati elaborati senza considerare la crisi dell’autonomia scolastica, dando per scontato che il frame istituzionale attuale sia sufficiente per rilanciare la scuola.I testi del Pnrr finiscono per considerare ciò che abbiamo vissuto con la pandemia un’urgenza da risolvere con una spruzzata di tecno-ottimismo e ignorando la progressiva estraneità della scuola per le nuove generazioni. Il rischio di non aver aperto il dibattito, malgrado l’indubitabile situazione di emergenza nella quale sono maturati quei documenti, è molto alto. Chiediamo alle nostre scuole di spendere una quantità ingente di denaro pubblico che sappiamo che potrebbe essere scarsamente efficace. Si tratta, infatti, non di migliorare la scuola, come ripetono le politiche istituzionali, ma di cambiarla. Migliorare, in altri termini, rispetto alle sfide della società contemporanea, potrebbe non bastare, occorre un coraggioso salto di paradigma per uscire dall’impasse.La questione dell’idea di scuola è antica e non è affatto astratta. Già Ivan Illich negli anni Settanta proponeva di superare la forma scolastica e ancora oggi non mancano le voci che vorrebbero liberarsene. Riccardo Massa nel suo profetico Cambiare, all’alba dell’autonomia, riprendeva la questione ricordando che cambiare la scuola implica un cambiamento di pensiero. Massimo Baldacci ci ha dedicato la sua ricerca in diversi testi, ripercorrendo la storia della scuola italiana con riferimenti a come già in Gramsci fosse un problema importante sul quale confrontarsi e di come questa idea sia andata progressivamente evaporando. Viene ripresa più volte nelle riflessioni sulla forma della scuola come spazio di tensioni e contraddizioni creative, anche nella letteratura francese e inglese dall’inizio della scuola di massa nella società industriale all’età contemporanea.Se in larga misura questo problema è stato affrontato nello scenario dello stato-nazione, oggi si pone, invece, e in maniera inedita in uno spazio transnazionale. Sono ormai in molti che cercano di immaginare quale debba essere la forma della scuola del futuro. Si è sviluppata al riguardo una vera e proprio futurologia della scuola. Si tratta di documenti elaborati tradizionalmente dalle organizzazioni internazionali, come l’Ocse e l’Unesco, ma che oggi vengono scritti da una molteplicità di attori, tra i quali vi sono, ad esempio, e in misura crescente, soprattutto a partire dalla pandemia, le grandi aziende dell’Ed Tech, interessate a sviluppare degli scenari sociotecnici. L’operazione è importante: plasmare il futuro, anche sul piano discorsivo, ha un notevole valore politico. Può contribuire a determinare regimi anticipatori e sono una forma per gestire l’inevitabile incertezza che è alla base di qualsiasi configurazione istituzionale. Da questo punto di vista, si può passare dai futuri possibili a un futuro più determinato che può essere oggetto di discussioni e di interessi differenti da comporsi in maniera più o meno partecipata. CulturaLa scuola della concorrenza non è la scelta giustaNel quadro di attività di scenario-planning con esperti l’OCSE pubblica nel corso del 2020 un documento dal titolo Back to the future of education: Four OECD Scenarios for Schooling che delinea quattro scenari per il 2040. Il primo scenario è “La scuola estesa” e che corrisponde a un consolidamento e una estensione della scuola di massa. In questo scenario, le scuole sono attori chiave della socializzazione e della certificazione, anche se operano in uno spazio di collaborazione internazionale. Gli insegnanti operano in un regime di monopolio, malgrado potrebbero esserci dei cambiamenti nella organizzazione dei compiti con una diversificazione delle funzioni.Il secondo scenario, invece, è quello della “Scuola esternalizzata” nel quale la scuola opera in un mercato dell’apprendimento con altre agenzie formative in competizione. In questo scenario il principio della scelta da parte di genitori e studenti è cruciale. La scelta riguarda anche la possibilità di decidere à la carte i contenuti dell’apprendimento. La burocrazia allenta il suo controllo, si limita a far rispettare un quadro di regole comuni e interviene con misure compensative.“La scuola come learning hub” è il setting del terzo scenario che viene proposto. Le funzioni tradizionali della scuola vengono mantenute, ma sono sviluppate diverse forme di riconoscimento delle competenze. Le scuole operano in un’eco-sistema di apprendimenti, vengono sperimentate e implementate una diversità di soluzioni pedagogiche. Partnership con musei, istituzioni culturali, hub tecnologici, attività di service-learning arricchiscono l’offerta pedagogica sul piano del territorio.L’ultimo scenario “Learn-as-you-go”, infine, vede la scomparsa della scuola. Il digitale costituisce l’infrastruttura della conoscenza e della sua trasmissione. L’apprendimento si basa su sistemi tecnologici digitali e sull’intelligenza artificiale. Valutazione e certificazione sono mediate digitalmente. La burocrazia scolastica è completamente smantellata e i confini tra lavoro, educazione e tempo libero diventa quasi indistinguibili. La datafication dei processi diventa l’aspetto fondamentale del governo dell’educazione.Pur nelle inevitabili semplificazioni, i quattro scenari restituiscono possibili traiettorie. L’irruzione della pandemia, nel mostrare empiricamente, tutta la problematicità del quarto scenario, rende certo meno probabile l’opzione “Learn as you go” come configurazione istituzionale per una scuola che non sia elitaria. E, tuttavia, il lavoro dell’Ocse, pur ricco di spunti, finisce per rimanere sulla superficie dell’impasse. Nel nostro paese, la questione dell’autonomia scolastica, infatti, è nel suo declinarsi, seppur nella sua inedita alleanza con la burocrazia scolastica, nel prevalente perimetro della ragione neoliberista. Sembra essersi rovesciata tutto sommato nell’alter organizzativo del mercato. Sappiamo, tuttavia, che non c’è una equivalenza necessaria. Vi è un versante dell’autonomia associato a decentramento, partecipazione, sussidiarietà, coordinamento e democrazia che è poco praticato nel governo della scuola. Vi è, infine, la questione educativa, frettolosamente risolta nell’angusto perimetro del linguaggio delle competenze e dell’istruzione. CulturaLa scuola da istituzione a servizio, gli effetti classisti dell’autonomiaUn nuovo contratto sociale per l’educazioneUn’altra via d’uscita, avventurosa e rischiosa, implica, infatti, il recupero delle potenzialità dell’autonomia, nel quadro di un diverso ridisegno della relazione tra scuola e società. Si tratta per la nostra scuola di cambiare il linguaggio, iscriverla in una teoria dell’educazione e di abbandonare il riduzionismo dell’attuale impianto istituzionale, ormai allineato sulla logica di obiettivi misurabili di apprendimento. Bisognerebbe pensare insomma a (ri)dare senso all’autonomia scolastica.Il nuovo documento dell’Unesco, “Re-immaginare i nostri futuri insieme: un nuovo contratto sociale per l’educazione” recentemente presentato in una conferenza alla Camera dei deputati alla Biblioteca Nilde Iotti, rimettendo al centro tale questione, offre delle piste interessanti di lavoro. In primo luogo, suggerisce un metodo: la partecipazione. La scuola si cambia insieme, innescando un processo collettivo di ripensamento che richiede tempo. Il documento stesso è l’esito del coinvolgimento di un milione di persone in tutto il mondo che hanno prodotto a loro volta interessanti contributi (alcuni dei quali pubblicati dall’Unesco) e che hanno attivato veri e propri eventi di immaginazione del futuro. In secondo luogo, indica che occorre cambiare in maniera significativa l’educazione, riconoscendo che i modelli attuali sono insufficienti e sono in parte essi stessi (si pensi al cambiamento climatico) la causa dei problemi della società contemporanea.Si tratta, in particolare, per dirla con il pedagogista olandese Geert Biesta, di ripensare la relazione tra scuola e società, ovvero di chiedersi di quale società ha bisogno la scuola e non viceversa come la scuola può adattarsi alla società, come nella ragione neoliberista. In questa prospettiva è possibile fondare in positivo l’autonomia culturale che la scuola può esercitare in qualità di istituzione sociale. In modo iperbolico, si può dire che bisogna difendere la scuola dalla società.Questo assunto comporta, secondo il documento dell’Unesco, un impegno per garantire un’educazione di qualità per tutto l’arco della vita e per considerare l’educazione come sforzo pubblico e bene comune. Nel tritacarne dei discorsi scolastici si possono considerare questi due principi come pura retorica, ma a ben guardare ampliano lo sguardo riduzionistico della teoria dell’apprendimento e delle politiche educative più in voga nel nostro paese. L’attenzione al concetto di “educazione” e non “istruzione” implicherebbe, ad esempio, cambiare completamente la prospettiva valutativa (includendo gli aspetti non misurabili) e rimettere in discussione la metodologia delle competenze che è il pilastro della scuola dell’autonomia. Ampliare il diritto ad un’educazione di una qualità per tutta la vita vuol dire impegnarsi a considerarla un principio-guida per assicurare benessere al di là delle esigenze del mercato. E ciò a sua volta implica appunto affermare l’educazione come bene comune.La questione dell’educazione come “comune” non è nuova, e più in generale, si è sviluppata un’ampia letteratura sui “commons” (si veda il bel testo di Christian Laval e Francis Vergne sull’educazione democratica) che non sempre, tuttavia, fornisce indicazioni concrete. In questo caso, invece, ci sono proposte meritevoli di discussione. L’idea della pedagogia cooperativa, la necessità di sviluppare nuovi curricoli nel senso ecologico, interdisciplinare e interculturale, l’insegnamento come professionalità collettiva, la scuola come luogo educativo protetto per l’inclusione, l’equità e il benessere individuale e collettivo, ma anche per promuovere meglio la trasformazione del mondo verso futuri più giusti, equi e sostenibili, sono idee che presentano un indirizzo culturale alternativo accogliendo la felice novità di un orientamento decoloniale e post-antropocentrico. Il ripensamento dell’educazione e della scuola non possono continuare a trascurare le diversità culturali, i saperi di cui sono portatrici e la dimensione planetaria.L’utopia come metodo    Nella crisi dell’autonomia scolastica ci si può, dunque, crogiolare nell’esistente, proponendo aggiustamenti cosmetici e a poco prezzo (si veda la misura sulla istituzione dei vicepresidi) senza cambiare il senso della direzione della politica scolastica, improntato a una dipendenza della scuola dalle dinamiche dell’economia (quelle del capitalismo digitale, oppure dell’impresa come nel caso della riforma degli istituti tecnici). Si potrebbero sviluppare altre strade, assumendo l’utopia come metodo e pensare che l’autonomia scolastica possa essere un luogo nel quale re-immaginare la società in modo che possa essere inclusiva equa e sostenibile.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediPaolo LandriPaolo Landri, Sociologo dell'Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR. Con Radhika Gorur e Romuald Normand, ha curato di recente Rethinking Sociological Critique in Contemporary Education - Reflexive Dialogue and Prospective Inquiry, London, Routledge

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