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MarketingDue studentesse si incamminano alle lezioni di infermieristica - F.G. COMMENTA E CONDIVIDI In classe insieme a lei,ETF pronte ad ascoltare le lezioni di anatomia e tecniche infermieristiche, una ventina di altre studentesse. Prima del 2021, di quell’agosto che ha visto i taleban riprendersi l’Afghanistan, la maggior parte di loro frequentava atenei diversi. Due studiavano diritto, una seguiva corsi di letteratura Dari, un’altra era iscritta a matematica, una aveva scelto la laurea in storia, altre due in management administration. « Ero così felice di frequentare un'università pubblica, avevo fatto di tutto per entrarci, ma poi è stata chiusa», racconta Noor Sama (nome non suo, per ragioni di sicurezza) che allora era iscritta alla facoltà di sociologia. Ventisei anni, gli ultimi tre chiusa in casa a causa dei divieti, paga una retta proibitiva per alimentare il suo sogno: «Fame, fatica, non importano, le sopporto Il giorno in cui sono rientrata in classe ho pianto. Mi sono sentita di nuovo viva» ​Oggi ha 26 anni, gli ultimi due e mezzo buttati al vento fra le mura di casa, tentando di studiare online, finendo per deprimersi, stando male. «Sono rimasta ferma dal settembre 2021 fino a tre mesi fa, quando mi sono iscritta a un istituto privato per studiare infermieristica. I taleban ci permettono di istruirci solo in questo campo e visto che gli altri posti ci sono negati, non ho avuto scelta», spiega via WhatsApp. Quello sanitario è uno dei pochi settori in cui, in Afghanistan, sia ancora consentito alle donne di lavorare. In un’intervista rilasciata a dicembre, Qalandar Ebad, ministro de facto della Sanità pubblica del nuovo Emirato islamico, riferiva di 150.000 lavoratrici attualmente impiegate nel comparto. Così, mentre nel Paese permane il divieto di istruzione secondaria per studentesse oltre il sesto grado, cioè oltre i 13-14 anni, e l’accesso alle università, resta invece permesso studiare infermieristica, farmacia, tecnica di laboratorio e fisioterapia. La classe di infermieristica ad Herat - F.G.Esistono istituti di formazione sanitaria statali che ufficialmente, almeno secondo il Ghazanfar Institute of Health Sciences di Kabul, responsabile per le strutture regionali, sono aperti anche alle ragazze, gratuitamente. Molti sono sottofinanziati, ma alcuni hanno il sostegno di donatori stranieri, come i tre centri supportati dal Norwegian Afghanistan Committee che in queste settimane sta immatricolando 300 giovani donne. «Gli istituti statali sarebbero gratuiti. Ma dalla chiusura delle università, i taleban non ci permettono di frequentarli. Quello di Herat, almeno, è chiuso alle ragazze. Solo gli istituti privati sono aperti per noi», assicura Noor Sama, che altrimenti non spenderebbe tutto quel denaro per una scuola a pagamento, che la costringe a tagliare le spese al minimo. «Fame, fatica, non importa, le sopporto, ogni giorno cammino diversi chilometri per arrivare all’istituto. Non posso pagarmi il trasporto, né comprare i libri. Studio consultandoli in pdf sul telefono». Senza poter lavorare, le è difficile trovare i 6.000 Afghani (la valuta locale, pari a 78 euro) necessari per la retta semestrale, più i 4.000 (52 euro) per testi e altre spese. A volte si dedica al “khamak”, al ricamo tradizionale a mano, ma non basta. «Se non consegni in tempo la retta, non ti è permesso sedere in aula. Come rappresentante di classe, molte volte ho litigato con gli insegnanti e l'ufficio amministrativo perché le mie compagne non pagavano in tempo. Non c’è alcuna comprensione». Tre anni di corso, sei semestri in totale, lezioni quotidiane tranne il venerdì, ed esercitazioni pratiche in ospedale un giorno alla settimana. «A lezione andiamo coperte integralmente, un velo anche sul viso, facoltativo all'interno della classe», racconta la studentessa. «L'ingresso dell’istituto è separato per maschi e femmine, anche il percorso nei corridoi è diversificato, per non incontrarsi. Non c'è contatto, non dobbiamo vederci. Noi entriamo da una porta, i ragazzi da un’altra. Due piani sono riservati a noi, altri due per loro. I maschi scendono le scale verso le aule, noi ci arriviamo con l'ascensore e le insegnanti sono quasi tutte donne, se sono uomini si tratta di anziani». Non essendo un istituto pubblico, al termine dei tre anni non ci sarà alcun certificato riconosciuto. «Per gli studi in centri privati il governo non rilascia diplomi» puntualizza Noor Sama. «Riceviamo dall’istituto solo la conferma che abbiamo studiato lì, il che significa poi lavorare con stipendi ridotti». Per questo, «se ci fossero le circostanze giuste», il suo pensiero corre anche all’ipotesi di provare a emigrare. Per ora, comunque, gli ostacoli non sembrano smorzare l’entusiasmo di essere di nuovo una studentessa. « Il giorno in cui sono entrata in classe dopo due anni e mezzo non potevo crederci. Ho pianto. Tornare a studiare per me significa avere la speranza di essere viva. Vuol dire non fermarsi, non essere reclusa in casa, realizzare i desideri anche forzando la situazione. Significa, in futuro, non essere una madre analfabeta. Vuol dire non arrendersi davanti agli uomini».

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