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San Michele Arcangelo - Vatican NewsL’accoglimento di una simile proposta ricorderebbe a ciascun magistrato che la sua prima responsabilità non è quella di costruirsi una carriera,VOL ma è quella di provare a rendere giustizia nel caso concreto. Togliendo l’idea malintesa per cui chi è investito di responsabilità organizzative è necessariamente “più meritevole” di chi non le esercita Il sistema giudiziario – da troppi anni – non è in grado di offrire ai consociati un soddisfacente livello di tutela dei diritti. Le cause sono molteplici: un’enorme domanda di giustizia (comparativamente superiore a quella registrata in altri paesi); procedure giudiziarie non sempre efficaci; un numero di magistrati e di personale amministrativo assolutamente insufficiente (e comparativamente inferiore a quello di molti altri paesi); una distribuzione delle risorse sul territorio non sempre razionale. Il risultato è noto ai cittadini: un arretrato – nel settore civile, tributario e penale – gigantesco; una durata dei processi irragionevole e non accettabile. Cambiare, dunque, si deve. Tra le varie riforme di cui si discute in questi mesi - della giustizia civile, della giustizia penale, della giustizia tributaria, dell’ordinamento giudiziario – vi è quella relativa al sistema di selezione dei magistrati cui attribuire responsabilità organizzative; ciò sul presupposto che – selezionando i “migliori” dirigenti degli uffici giudiziari – si avrà necessariamente una migliore organizzazione del sistema giudiziario e, conseguentemente, un effetto positivo sulla tempestività ed efficacia della risposta giudiziaria. Non è un’idea nuova e, per ragionarci, occorre ripercorrere qualche tappa. La selezione dei dirigenti Risale oramai a quindici anni fa la riforma dell’ordinamento giudiziario (riforma Castelli-Mastella, anni 2005-2006) con cui si superò il criterio sino ad allora vincente: quello dell’anzianità (criterio per cui – semplificando – tra gli aspiranti a dirigere un ufficio giudiziario si sceglie quello più anziano che, una volta nominato, può restare a dirigere quell’ufficio senza essere sottoposto a particolari controlli). La riforma Castelli-Mastella supera dunque la visione gerontocratica della dirigenza e pretende che i dirigenti vengano scelti (dal CSM) all’esito di una selezione che pone al centro la verifica del possesso di determinate attitudini ad esercitare funzioni direttive o semi-direttive (con la conseguenza che un certo magistrato può risultare più titolato di un candidato dotato di maggiore anzianità di servizio). Di più: la riforma Castelli-Mastella prevede anche che i magistrati incaricati di compiti direttivi o semi-direttivi debbano “rendere conto” del loro operato dopo un primo quadriennio di esercizio di funzioni organizzative; in caso di positivo esercizio di tali funzioni, essi possono essere confermati nell’incarico (dal CSM); nei casi problematici, essi possono essere sollevati dall’incarico. In questi termini – introducendo un’idea di temporaneità nell’esercizio delle funzioni direttive e semi direttive – si era inteso promuovere una cultura organizzativa “orientata ai risultati” (verificabili). Finalmente – si diceva – una riforma che “premia il merito” e impone al sistema giudiziario di lavorare secondo logiche di buona organizzazione non burocratiche. Dopo quindici anni sappiamo alcune cose su come siano andate le cose. La meritocrazia La riforma del 2005-2006 ha certamente determinato un aumento della cultura organizzativa media dei magistrati investiti di funzioni direttive e semidirettive. In molti uffici giudiziari abbiamo eccellenti dirigenti, capaci di organizzare – con risorse scarsissime – uffici che, senza la loro intelligenza e talora senza la loro  fantasia organizzativa, non potrebbero aprire le porte ogni mattina. È la situazione di molti uffici medio-piccoli, spesso siti alle periferie del nostro Paese. Tuttavia, l’introduzione della “meritocrazia” non è stata la panacea dei mali del sistema giudiziario (perché nessuna riforma di una sola parte del sistema, da sola, può esserlo). La “verifica dei risultati” (la auspicata temporaneità degli incarichi direttivi), poi, non è stata in grado di assicurare un effettivo controllo sull’attività dei magistrati incaricati di funzioni direttive e semi direttive. Le “mancate conferme” di dirigenti si contano - in un quindicennio – sulle dita di poche mani e rappresentano una percentuale pressoché irrilevante; si tratta di un dato che, molto probabilmente, più che rivelare un eccellente livello dei magistrati con funzioni direttive e semi-direttive, denuncia l’inadeguatezza dei criteri di valutazione sino ad oggi utilizzati. La riforma del 2005-2006, dunque, ha prodotto un risultato leggibile in chiaro-scuro: da un lato, ha garantito un aumento della competenza dei dirigenti degli uffici giudiziari; dall’altro lato, ciò non è stato decisivo per il miglioramento del sistema. Frutti avvelentati Ma, soprattutto, la riforma del 2005-2006 è un albero che ha prodotto anche frutti avvelenati. Nel corpo della magistratura, infatti, è entrata un’idea di meritocrazia che è stata profondamente malintesa: idea per cui chi è investito di responsabilità organizzative è necessariamente “più meritevole” di chi non le esercita; idea per cui chi riveste funzioni organizzative diventa “capo” di qualcosa; idea per cui chi esercita funzioni organizzative entra in un circuito parallelo per cui risulta quasi disdicevole la dismissione dei galloni e il ritorno alle ordinarie funzioni giudiziarie. Di qui l’affermarsi dell’idea che esistano una “magistratura alta” e una “magistratura bassa”; di qui l’idea di carriera, gli appetiti, le richieste di raccomandazioni, gli scambi che purtroppo tutti abbiamo imparato a conoscere leggendo le cronache degli ultimi anni. Chiaramente sto facendo una caricatura e non sto parlando di “tutti” i magistrati che esercitano funzioni direttive e semi-direttive. Un’ottima parte di loro ricopre il proprio ufficio con serietà e disinteresse, in una logica autenticamente orientata al miglioramento del servizio giustizia.  Ma nemmeno si può trascurare “l’altra parte” (quella meno ottima). È evidente quanto sia “desiderabile” incidere su questa parte di magistratura che coltiva una malsana idea di meritocrazia e la interpreta come “carrierismo”. I rimedi al carrierismo Quali rimedi, dunque? Vi è chi propone un ritorno al crudo criterio dell’anzianità. Ma si tratta di un rimedio che – pur avendo il pregio della indiscutibile oggettività – non potrebbe assicurare al sistema giudiziario quello di cui vi è bisogno: non gerontocrazia, ma cultura organizzativa. Vi è chi propone l’introduzione di criteri di selezione “dal basso”, con selezione dei magistrati con funzioni semidirettive operata “dai pari”, “a rotazione” per un periodo di tempo limitato (al dichiarato fine di espropriare il potere di scelta così malamente esercitato dal CSM, preda delle correnti). Ma si tratta di un rimedio che rischia di spostare gli appetiti di carriera ad un livello meno controllabile e trasparente, che non necessariamente assicura la possibilità di scegliere persone dotate di adeguata cultura organizzativa, che rischia di aumentare la divaricazione tra livelli di efficienza del sistema giudiziario nel Paese. Si deve dunque continuare a perseguire l’idea della centralità delle attitudini e delle competenze organizzative nell’individuazione delle persone chiamate ad esercitare funzioni direttive e semi-direttive; si tratta di una prospettiva indispensabile al miglioramento del servizio che la giustizia offre ai consociati. Ed è indispensabile che tali scelte continuino ad essere esercitate dal CSM, vale a dire dall’organo cui la Costituzione assegna la responsabilità del governo autonomo della magistratura. I parametri di valutazione È tuttavia necessario che il legislatore aumenti le fonti di conoscenza cui ha accesso il CSM e che determini i parametri di valutazione in modo che la ineliminabile discrezionalità del Consiglio superiore possa essere esercitata in modo autenticamente trasparente (e, dunque, concretamente controllabile): tanto nel momento in cui è chiamato a selezionare il magistrato cui attribuire responsabilità organizzative; quanto nel momento in cui è chiamato a valutare – all’esito del primo quadriennio di esercizio delle funzioni direttive e semi-direttive – se questi debba o meno essere confermato nell’esercizio di quelle funzioni  (e in questo solco si colloca l’iniziativa dello stesso CSM che, di recente, ha approvato una riforma dei criteri di valutazione per le conferme, perseguendo l’obiettivo di rendere le procedure di conferma maggiormente effettive e fondate su dati concreti e verificabili). Se questa prospettiva (di responsabile selezione sulla base delle attitudini), dunque, è ineliminabile – perché risponde ad un’esigenza della contemporaneità – è altrettanto necessario evitare che questa idea di attitudini (o di meritocrazia) produca gli alberi avvelenati di cui si è detto. Non ci sono due magistrature È necessario disarticolare l’idea di “carriera”. È necessario introdurre meccanismi che impediscano l’affermarsi di un’idea per cui le funzioni direttive e semi-direttive costituiscano un percorso separato rispetto all’ordinario esercizio della funzione giudiziaria, finendo con il legittimare l’immagine di una “magistratura alta” e di una “magistratura bassa”. Non esistono ricette perfette per assicurare questo risultato. Un possibile rimedio potrebbe essere dato dall’introduzione di meccanismi che promuovano una effettiva temporaneità nell’esercizio delle funzioni direttive e semi-direttive (in virtù dei quali – terminato il periodo di esercizio di funzioni direttive o semidirettive – si debba necessariamente “tornare” all’esercizio di funzioni giudiziarie non direttive per un periodo di tempo non simbolico). La necessità di quello che alcuni – in modo non troppo elegante – hanno chiamato un “bagno di giurisdizione” è, secondo alcuni, una misura “populista”, che comporterebbe una perdita di competenze organizzative di chi ha già positivamente esercitato una certa funzione. È evidente che l’accoglimento di una simile proposta comporterebbe “come prezzo da pagare” una perdita di competenze e sacrificherebbe le esperienze di molti dirigenti che – in contesti difficili e con generosità – mettono a servizio della giurisdizione dedizione e intelligenza organizzativa. Tuttavia, si tratterebbe di una perdita solo limitata nel tempo e necessaria a promuovere un cambiamento culturale (che, peraltro, disincentiverebbe chi è spinto da una malsana idea di carriera). L’accoglimento di una simile proposta avrebbe infatti un forte impatto, crediamo non solo simbolico: renderebbe particolarmente evidente che l’esercizio di funzioni direttive e semi-direttive è una responsabilità e – prima che un onore – costituisce un onere.  L’accoglimento di una simile proposta ricorderebbe a ciascun magistrato che la sua prima responsabilità non è quella di costruirsi una carriera, ma è quella di provare a rendere giustizia nel caso concreto. La temporaneità effettiva Soprattutto, l’introduzione di una effettiva temporaneità nell’esercizio delle funzioni direttive e semidirettive ribadirebbe l’idea costituzionale della pari dignità delle funzioni giudiziarie e contrasterebbe appetiti, invidie e questa malintesa idea di meritocrazia (che sta avvelenando la magistratura). I tempi, infatti, costringono a ribadire l’ovvio: l’esercizio della funzione giudiziaria è responsabilità in sé nobile e difficile ed è nell’esercizio della funzione giudiziaria che ciascuno deve spendere al massimo grado le proprie competenze professionali ed umane; che è lì che si deve manifestare il vero “merito”.  In un momento in cui la storia impone alla magistratura di confrontarsi con le patologie emerse, l’affermazione di una effettiva temporaneità delle funzioni direttive e semi-direttive ricorderebbe a ciascun magistrato la centralità del lavoro giudiziario e che è lì – e non altrove – che risiede il “senso ultimo” della sua professionalità. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediAndrea Natale Componente del comitato esecutivo di Magistratura democratica

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