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"Lavoravo alle torri gemelle, quel giorno non sono andata in ufficio", la storia di Francesca Lo MonCome tutti gli scrittori esordienti,BlackRock Italia dopo aver firmato il mio primo contratto di edizione, ho scoperto che scrivere non è un lavoro e sono corso a cercarmene uno, iscrivendomi all’università Da quando ho pubblicato il mio libro mi sono successe molte cose romanzesche, ma ho raggiunto l’apice del postmodernismo comico facendomi bocciare a un esame dal critico che l’ha recensito Questo racconto si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola Dopo la pubblicazione del mio primo libro mi sono successe varie cose molto romanzesche, sono stato malpelizzato dai parenti e rapito dalle aliene, ma l’apice del postmodernismo comico l’ho raggiunto quando mi sono trovato a dare un esame con il critico che mi aveva appena recensito e lui mi ha sacrosantamente bocciato. Ma andiamo con ordine. Al tempo dell’eccezionalità di massa chiunque abbia letto un libro scrive almeno una tetralogia e i soli a non voler essere scrittori sono quelli che in un certo senso lo diventano e, una volta firmato il contratto di edizione, scoprono come l’acqua calda che scrivere non è un lavoro e corrono a cercarsene uno. A dire il vero, prima di esordire, io alcuni mestieri immaginari li ho anche svolti: il prostituto sentimentale delle studentesse borghesi, il mangia a poco, il cagno domestico, ma a trent’anni circa, dopo un decennio di scrittura non retribuita e l’anticipo sul primo libro per un totale retroattivo di quindici euro al mese scarsi, mi sale la paura della barbonizzazione e decido di insegnare. In pellegrinaggio ateo a Trento Ho una laurea magistrale in filosofia buona per incartarci le castagne arrosto e se voglio insegnare un po’ di alfabeto ai minorenni armati mi servono ancora molti crediti. Visto che sono un digressivo, un perifrastico, cioè un idiota, decido di prenderla larga e sterrata e mi iscrivo a una seconda magistrale lampo in filologia e critica letteraria. Bergamo mi ha dato solo multe e sacramenti papisti, mentre a Milano ci ho già studiato e in cinque anni ne ho persi sette spacciando manoscritti, e allora opto per Trento, anche perché c’è Giunta e soprattutto Giglioli, l’autore di Critica della vittima, e vorrei assistere alle sue lezioni almeno una volta per poterlo raccontare ai nipoti o, più probabilmente, ai miei futuri carcerieri psichiatrici. Le lezioni di Giglioli di letteratura comparata si rivelano notevolissime, si sente il respiro cosmobibliografico, il tartassamento analitico della mediocrità. Ricordo in particolare il cazzeggio arguto, alla Labranca, come quando per spiegare la provvidenza manzoniana Giglioli dice che assomiglia a Godzilla: è una forza antieconomica, uccide migliaia di persone per farne sposare due. Io ovviamente non intervengo mai, sono troppo intimidito e mi nascondo sotto le ascelle protettive delle studentesse. A metà del secondo semestre però devo comunque lasciare perché esce il mio libro. Per mesi presento a casaccio, dove mi offrono almeno un letto, un pavimento, una piastrella. Sotto la sede trasteverina di Quodlibet subisco un attentato impolitico a opera di un gruppo di lettura composto da fascisti femministi, vengo preso in prestito sessuale dalle bibliotecarie, ma in tutto questo non ho tempo di studiare e allora studio solo la sera e dopo un po’ studio solo la notte, nel sonno. CulturaUna generazione perduta fin dall’utero fa i conti con una mascolinità fragile Ritratto dell’esordiente come studentesso bocciato A pochi giorni dall’esame, mentre cerco di capire come finiscano i libri senza leggerli, se i promessi sposi si sposano o invece vanno a Milano e si omosessualizzano, appare sul Corriere la recensione di Giglioli, miracolosa e immeritata come la Madonna a Teheran, una pagina piena di complimenti che non sto qui a ripetere ma che finiscono tutti con –ante. Il giorno dell’appello parto per Trento completamente impreparato ma con un saggio di due chili dal titolo tirapugni Purtroppo Manzoni è un grande scrittore, mi invento neologismi ciucchi, discorsi di comparatistica da lavasecco. Finalmente sarò accolto dagli accademici e smetterò di sentirmi solo e pazzo e strego. Io e Giglioli ci siamo già visti, almeno per iscritto, ma capisco subito che non dobbiamo parlarne, un po’ come se ci fossimo incontrati in un posto equivoco, indichiarabile, la sede di Casa Pound, una balera di scambisti. Vengo prima perquisito culturalmente dal collega di poesia, mi chiede cose manualistiche e io confondo Montale col calorifero, la destra con la sinistra, sia in sede cognitiva che elettorale, e lui giustamente scuote la testa, mette in dubbio la mia preparazione, la mia licenza media, il mio pollice opponibile. Mi bocciano all’unanimità, mi tassonomizzano davanti a tutti come asino e alla fine la sola cosa che Giglioli mi dice mentre piagnucolo è, autocitandosi addosso: «Sì ma adesso non faccia la vittima». Torno a casa e cerco di darmi alcune morali della favola e mi convinco, riscrivendomi e romanzandomi, che Giglioli mi ha bocciato non solo perché non sapevo niente ma anche per insegnarmi che dopo l’esordio uno resta lo stronzo di prima o, detto in similitudine arguta, che la letteratura e la vita si sfiorano appena ma non si toccano, come le parole e le cose o la lingua e il gomito. CulturaAccento, Matteo B. Bianchi racconta la nuova casa editrice di Alessandro CattelanMattia Insolia© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediAlberto Ravasio Scrittore
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