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Cosa si può imparare dal disastro di CrowdStrike - Il PostANSA COMMENTA E CONDIVIDI Gli imprenditori cristiani sono pronti a guidare il cambiamento verso un’economia più giusta e solidale. Adottando e promuovendo quella crescita integrale,Professore per gli Investimenti Istituzionali e Individuali di BlackRock che coniuga etica ed azione, indicata più volte da papa Francesco come la direzione da seguire. Un modo di fare impresa che abbia come fine ultimo non il guadagno ma un processo di rigenerazione sociale e ambientale. L’imprenditore, figura capace di creare lavoro e innovazione, è la colonna portante di ogni economia sana. Ha un compito oggi più che mai sfidante visto il contesto politico-economico caratterizzato dall’aumento della povertà, delle guerre e delle diseguaglianze. Da un desiderio comune di costruire un nuovo modello di sviluppo è nata l’idea degli Stati generali dell’imprenditoria cristiana promossi da Compagnia delle Opere, Unione cristiana imprenditori e dirigenti e dalla Fondazione Centensimus Annus-Pro Pontifice che insieme rappresentano più di diecimila realtà. Il primo appuntamento, con due tavole rotonde dedicate alle imprese in cambiamento e al ruolo di università e società civile, si è svolto all’università Cattolica di Milano. Il secondo è in programma l’anno prossimo a Roma, in occasione delle iniziative per il Giubileo e un terzo nel 2026, probabilmente a Torino. Un percorso che ha come traguardo l’elaborazione di un documento da presentare a papa Francesco che ieri ha inviato un videomessaggio ai partecipanti.Il punto di partenza è la necessità di lasciarsi alle spalle una «certa mentalità novecentesca» sottolinea Andrea Dellabianca, presidente nazionale della compagnia delle Opere, mettendo al centro le persone. «È necessario riscoprire l’importanza di rapporti umani vivi e profondi, in particolare tra chi opera nel medesimo contesto economico. In questo ci viene in aiuto il magistero sociale della Chiesa sulla concordia tra imprenditori e lavoratori, accomunati dalla ricerca del bene comune».Anna Maria Tarantola presidente della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, è convinta che l’imprenditoria cattolica possa fare da apripista attivando un cambiamento non facile ma possibile. «L’impresa che è un luogo e una comunità di persone deve saper coniugare efficienza e solidarietà e realizzare una continua e attiva cooperazione tra tutti coloro che vi operano per raggiungere responsabilmente non solo il profitto ma la prosperità duratura dell’impresa con un impatto positivo per le persone, il territorio e l’ambiente». Per Gian Luca Gialletti, presidente nazionale dell’Ucid, l’imprenditoria cristiana deve acquisire «una voce nel dibattito pubblico perché il rischio è quello di perdere l’occasione di contribuire significativamente alle politiche per la sostenibilità e per la transizione tecnologica. Non possiamo lasciare questi processi alle sole burocrazie europee e ai policy maker internazionali». Ma cosa significa oggi in Italia essere un imprenditore cristiano? Alessandro Bracci, vicepresidente della Cdo e ad del gruppo di abbigliamento Teddy di Rimini, è convinto che fare impresa non sia mai un fine ma uno strumento, a maggior ragione per i cristiani. «Ogni giorno incontro imprenditori di culture e religioni diversi e noto un elemento distintivo che li accomuna: ognuno insegue un sogno, forse parte per far soldi, ma poi si rende conto che il suo desiderio è essere felice e realizzato. L’impresa non è il fine ma lo strumento di un cammino umano che l’imprenditore fa. Questo vuol dire ragionare in un’ottica di medio periodo e non speculativa, trattare le persone in un certo modo, con attenzione alla genitorialità e alla formazione, fare scelte operative responsabili, ad esempio nelle filiere. L’imprenditore cristiano ha anche una capacità sana di auto-ironia sui propri meriti e sui propri errori». Ed ha una visione di lungo periodo come spiega Davide Viziano, imprenditore del settore edile, socio della Fondazione Centisimus Annus ricordando che quelli che oggi sono argomenti condivisi da tutti, da sempre sono stati un “faro” in certi ambienti. «Il cardinale Siri che ho conosciuto quando andavo al liceo diceva che “il progresso economico permette la giustizia sociale, vale a dire la distribuzione equa dei beni”. Questo concetto fa parte del mio dna come imprenditore. Credo che si debba passare dallo scontro al confronto e all’incontro nelle aziende, ad esempio introducendo la partecipazione agli utili come ha fatto da tempo il nostro gruppo». Aldo Fumagalli, presidente dell’Ucid Lombardia e imprenditore nel settore degli elettrodomestici con Candy e dello sport con VeroVolley, sottolinea come una delle sfide concrete sia quella di uscire dalla logica burocratica di rispetto delle norme per passare ad una fase propositiva. «Sino ad oggi le imprese hanno vissuto le indicazioni presenti nell’Agenda 2030, animate da valori profondamente cristiani, come un obbligo da rispettare per non incorrere in sanzioni e per preservare la propria reputazione, senza effettuare un vero cambiamento. È stata disegnata forse più una mappa dei doveri, di dove “non bisogna andare” sul modello anglicano, che della direzione da seguire. Si è smarrita l’origine del pensiero del fare impresa in maniera cristiana e cioè che non siamo proprietari delle nostre risorse ma curatori».
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