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Conferenza stampa di Conte, attacco a Salvini e Meloni"Let afghan girls learn",criptovalute recita la scritta sulla mano di uno dei disegni delle allieve di Darya, che hanno ricevuto i loro diplomi anche grazie al sostegno di Avvenire - . COMMENTA E CONDIVIDI I diplomi compaiono, in ordine alfabetico, sulla schermata online che per settimane ha accompagnato il corso d’arte tenuto dalla maestra Darya. La chiamano così, teacher, le ragazze, 20 sparse tra i quartieri di Kabul, Herat, Kandahar, Taloqan: sono Banin, Zhara, Hadia, Zohal. Vivono chiuse nelle loro case, il giorno di tre anni fa in cui sono state allontanate dalle scuole e dalle università non sbiadisce ancora, sono arrabbiate, spaventate, stanche. Darya Hasina, insegnante non è: ha appena 24 anni, da Kabul è scappata in Pakistan con la sua famiglia qualche settimana dopo la presa della capitale da parte dei taleban. Appartengono ai Kizillbash, una minoranza turco sciita, restare in patria significava doversi nascondere, praticare la propria religione segretamente e soprattutto morire di fame: i fratelli di Darya e poi anche il padre hanno perso il lavoro, in un Paese ben presto tornato sull’orlo del baratro economico oltre che sociale. Lei ha resistito alla fine del mondo disegnando, la sua grande passione, e a Islamabad ha deciso che quella doveva essere la salvezza anche per le altre giovani afghane: continuare a sognare una vita a colori, da donne libere, occhi spalancati su cieli blu cobalto e foreste e radure soleggiate. La scuola online di Darya è nata così, dal sogno: tavole condivise su Instagram, il passaparola tramite il fidanzato rimasto a Kabul, le prime amicizie nate sulle chat. I contatti sono aumentati, l’idea - semplice da far sorridere - era quella di incontrarsi nell’etere e provare a resistere insieme, condividendo paure e speranze, matite e pennelli alla mano. Bastassero, per cambiare le cose. Ma tra donne senza armi, e senza odio, tra donne cancellate e dimenticate da tutti, matite e pennelli sono diventate un vessillo ed un grido: «Non ci arrendiamo». ​Da aprile a fine maggio il corso partito grazie al sostegno del nostro giornale e dei lettori: venti le ragazze a cui è stato consegnato l’attestato, un segno di speranza in un Paese che vieta loro di studiare La prima classe si forma a gennaio 2023: un mese di lezioni per un corso che non vuole affatto insegnare a dipingere, ma a esprimere le proprie emozioni dipingendo: «Con le ragazze disegniamo i vasi delle emozioni - spiega Darya - poi li riempiamo di colori diversi a seconda di quello che proviamo». Lei la chiama art therapy, per le sue allieve è da subito salvezza. Gli esercizi iniziano ad accompagnarsi a dibattiti, incontri a distanza, progetti. Si condividono le foto scattate nella vita di prima, quando c’era la libertà di andare al parco o in campagna, si scaricano dai siti internazionali i paesaggi meravigliosi della Provenza, delle Highlands, delle Dolomiti, si mostrano i volti delle donne che nella storia sono state perseguitate e che hanno resistito. E poi si disegna, dandosi tempo per la consegna delle tavole alla maestra: cieli cangianti, chiome selvagge costellate di oggetti e di libri, volti di donne soprattutto, che chiedono libertà e diritti, che invocano in lacrime giustizia. Darya interviene, corregge con dolcezza: le ragazze migliorano, imparano a tenere il pennello in mano e a realizzare piccole grafiche anche in formato digitale. È uno scambio artigianale d’aiuto, ma l’appuntamento con la maestra diventa una ragione di vita nei giorni spenti della reclusione e sui social, Instagram in particolare, le ragazze cominciano ad aprire i loro profili e a postare i lavori: è il modo di far sentire la proprio voce, è il modo d’esser viste in un mondo da cui i taleban vorrebbero farle scomparire. Alla fine delle lezioni, Darya ha già decine di richieste per un nuovo corso, decide di organizzarlo e così il mese successivo e quello dopo ancora. Serve merce preziosa, però, che in Afghanistan è rarissima: fogli di carta, acquerelli e tempere, matite. Quando Avvenire la contatta, all’inizio di quest’anno, con l’obiettivo di utilizzare i suoi disegni per illustrare la campagna dedicata alle #donneperlapace, Darya non chiede compensi per il suo lavoro ma la possibilità di andare avanti a formare classi della sua scuola online, che è ferma. Ed ecco il rocambolesco sostegno a distanza a cui il nostro giornale ha partecipato, anche grazie al contributo dei lettori: i materiali sono stati acquistati e inviati in Pakistan per poi essere portati e distribuiti tra le case di Kabul e dintorni grazie al passaparola e all’aiuto di amici fidati. Ai primi di aprile le ragazze della nuova classe di Darya avevano tutto il necessario per frequentare il corso, che s’è concluso a fine maggio con la consegna dei diplomi simbolici (quelli che nel Paese sono loro negati) a cui parte della redazione ha potuto partecipare, collegata online. L’illustrazione realizzata da Darya per la copertina di Avvenire dell’8 marzo, che è poi stata donata al Papa all’Arena di pace di Verona, è stata replicata dalle allieve che hanno condiviso l’emozione di vedere il loro lavoro nelle mani di Francesco. Le tre giornaliste di Avvenire Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani consegnano a papa Francesco il quadro con l'immagine disegnata da Darya per la campagna #donneperlapace, 18 maggio 2024 - Vatican Media«Significa che esistiamo» ha spiegato Hadia, 18 anni, tra le poche che hanno il coraggio di accendere la videocamera e mostrarsi in volto. «Mi sento come un uccello in gabbia, non posso spiccare il volo», lo sfogo della 14enne Sana, poco più che una bambina, in lacrime per il diploma e per il peso di una situazione difficilissima a casa, «dove manca tutto – racconta –, non abbiamo più nemmeno da mangiare». Sullo schermo nero, tra i nomi muti delle ragazze afghane che continuano a sognare e a disegnare, piovono cuoricini e faccine commosse quando dall’Italia viene loro ripetuto che no, non resteranno sole. Darya prepara un’altra classe, Avvenire coi suoi lettori è pronto ad aiutare di nuovo. Su queste pagine di Afghanistan si continua a parlare.

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