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Letta sul Governo: "Se si accumulano incidenti si va fuori strada"

Scissione M5S, cambiano gli equilibri in Parlamento: ora la Lega è primo partitoGoverno, Berlusconi chiede a Draghi una “verifica di maggioranza”Notizie di Politica italiana - Pag. 198

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Ballottaggi amministrative 26 giugno 2022: Guerra è sindaco a Parma, Tommasi e Tarasconi avanti a Verona e PiacenzaQuesto è il numero 116 di Areale,Campanella la newsletter di Domani su ambiente e clima a cura di Ferdinando Cotugno. Questa settimana parliamo di fulmini, di una vittoria per la giustizia climatica, di informazione, di jet privati e di oceani.  Clicca qui per iscriverti alla newsletter in arrivo ogni sabato mattina. E tu come stai? C’è un posto, nel nord dell’America Latina, dove non tira sempre il vento, come direbbe Lucio Dalla, ma c’è una tempesta quasi ogni giorno dell’anno. Per la precisione, in media 297 giorni all’anno, secondo Bulletin of the american meteorological society. La chiamano la tempesta infinita di Catatumbo. È un posto in Venezuela, alla confluenza del fiume Catatumbo, lì dove si forma il lago Maracaibo. La particolarità è che quelle di Catatumbo non sono tempeste normali, ma sono sempre tempeste elettriche, ore e ore di fulmini (la chiamano infatti anche il «faro di Maracaibo», perché le navi al largo della costa usano queste tempeste per orientarsi nella notte). I fulmini di Catatumbo cadono in una zona molto localizzata, tutti sullo stesso posto, perché la vita a volte è fatta così. È l’effetto dell’incontro tra l’aria fredda che scende dalle Ande e di quella calda che arriva dai Caraibi: certe notti si va al ritmo di duecento fulmini al minuto. «Puoi leggere un giornale al buio», ha detto al New York Times Jonas Pointek, il fotografo che meglio ha documentato questa strana storia, il posto che per la Nasa è la capitale mondiale dei fulmini. E sì, è più o meno così che ci sentiamo. Numero 116 di Areale, cominciamo! Portare il mondo in tribunale: «Una vittoria di epiche proporzioni per la giustizia climatica» L’inizio di questa storia è un’assemblea di studenti delle isole del Pacifico, nella facoltà di giurisprudenza dell’Università delle Fiji. «E se andassimo fino all’Onu?», si sono detti. Sono quelle distanze che ti permetti di pensare di poter percorrere solo in un momento di sfrenata ambizione e speranza. E un’ambiziosissima speranza è esattamente quello che ci serve, a questo punto della storia. Il punto di arrivo è molti anni dopo, dentro un fragoroso applauso dell’Assemblea generale delle Nazioni unite: l’Onu ha approvato per consenso – quindi senza nessuna opposizione e nessuna votazione – una risoluzione per chiedere un parere al suo organo giudiziario più importante, la Corte internazionale di giustizia, sulla domanda: quali sono gli obblighi legali dei paesi rispetto all’azione contro i cambiamenti climatici? La richiesta di un parere era stata un’idea di quel gruppo di studenti, che ci hanno lavorato per anni, ritenendola lo strumento più adatto ad aggirare l’indifferenza delle grandi economie rispetto alla loro paura di veder scomparire la loro terra nell’oceano prima della fine di questo secolo. Il parere della Corte dell’Aia non sarà vincolante, ma farà giurisprudenza, potrebbe aprire il campo a una serie di ulteriori azioni legali e inclinare ancora di più il piano che vede nei tribunali un luogo più adatto per combattere la crisi climatica rispetto ai parlamenti e alle sedi dei governi. La mozione era stata presentata da Vanuatu, primo paese ad adottare la proposta degli studenti. L’idea era stata in passato già valutata da Isole Marshall e Palau, che però avevano rinunciato, scoraggiati – secondo molti osservatori – da pressioni arrivate dagli Stati Uniti. Vanuatu invece è andato dritto per la sua strada e con un cauto e lungo lavoro diplomatico dietro le quinte aveva costruito una solida maggioranza di oltre cento paesi già prima della convocazione di fine marzo a New York. Quando si è arrivati al momento dell’Assemblea, a quel punto era un goal a porta vuota, una pura formalità. «È una vittoria di epiche proporzioni per la giustizia climatica», ha detto subito dopo l’approvazione della risoluzione Ishmael Kalsakau, primo ministro dell’arcipelago da 300mila abitanti nel Pacifico. È anche la prova di come la disperazione e la paura di scomparire stiano trasformando i piccoli paesi insulari del Pacifico in soggetti molto più rilevanti rispetto a quanto suggerirebbero la manciata di abitanti, Pil e chilometri quadrati che sono in grado di portare sulla scena mondiale. Altro indizio: l’attenzione che sta ricevendo la proposta di un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, sul modello di quello per le armi nucleari, sostenuto da Vanuatu e Tuvalu, un’idea che ha già ottenuto l’appoggio dell’Oms, del parlamento europeo, di un gran numero di scienziati, del Vaticano e di una serie di città, tra cui le italiane Pontassieve (ultima arrivata) e Torino. Come contesto: Vanuatu ha già spostato sei villaggi su quattro delle sue isole per effetto dell’innalzamento del livello del mare. La barriera corallina, mezzo fondamentale di equilibrio e sostentamento per la comunità, sta morendo. Il tonno, principale ricchezza dell’isola, si trova sempre meno, perché le acque sono più calde e la specie sta migrando altrove. La risoluzione non è una formalità simbolica. La Corte internazionale di giustizia stabilirà se eventuali obblighi legali collegati al clima portino conseguenze legali. Un parere positivo potrebbe trasformare gli impegni volontari che ogni paese deve sottoscrivere secondo il meccanismo dell’accordo di Parigi in impegni vincolanti e sanzionabili. Potrebbe essere quindi la base, in caso di mancato rispetto di quegli impegni (mancato rispetto, per altro, frequentissimo), per aprire il campo a una lunga serie di nuove cause legali. Insomma, all’Onu si è attivato un potenziale effetto domino del quale vedremo l’effetto nel corso di questo decennio. Quell’approvazione e quell’applauso sono arrivati a dieci giorni esatti dalla pubblicazione della sintesi finale del sesto rapporto dell’Ipcc, il gruppo di lavoro scientifico dell’Onu sui cambiamenti climatici. Con la scienza che ha dato il suo ultimo allarme per questo decennio, la scissione tra la retorica e le politiche sembra a questo punto una voragine, ed è per questo che i tribunali da anni sembrano pronti a fare un ampio lavoro di supplenza. Dopo le vittorie ambientaliste nelle cause intentate in Olanda, Francia, Germania (dove è stata cambiata l’intera legge clima per effetto di una sentenza della Corte costituzionale federale), in attesa dell’esito della causa di Giudizio Universale in Italia, ora è il momento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nello stesso giorno dell’approvazione della risoluzione di Vanuatu all’Onu, il tribunale di Strasburgo ha tenuto la sua prima udienza di sempre sui cambiamenti climatici. Secondo avvocati e osservatori è andata bene: i proponenti sono il gruppo svizzero Anziane per il clima, che hanno fatto causa al loro paese per inadempienza climatica. Sarà la prima di tre azioni legali sulle quali deve pronunciarsi la Corte di Strasburgo in materia di clima, le altre due sono quella dell’ex sindaco francese di Grande-Synthe e di un gruppo di adolescenti portoghesi. Le sentenze sono attese entro la fine dell’anno. Brioche, jet privati e battaglie non così simboliche AP Quando, intorno all’estate scorsa, c’è stata tutta la campagna sui jet privati, ho visto tante persone parlare di questa conversazione (partita dai social, passata per l’attivismo, arrivata ai partiti e alla campagna elettorale) come di una questione simbolica, di forma, quasi di buona educazione, una classica faccenda di «pane e brioche», di rabbia contro l’insensibilità dei manager o delle popstar che sceglievano la scorciatoia del jet privato per non mescolarsi al reddito medio del Frecciarossa e alla foresta dei laptop sempre aperti e delle voci sempre in call. In realtà uno studio commissionato da Greenpeace Europa centro-orientale a CE Delft riporta la cosa su binari più concreti, per cui la storia dei jet privati è allo stesso tempo una faccenda simbolica e sostanziale. Sono emissioni vere, non brioche. Nello specifico, sono le emissioni equivalenti di 550mila cittadini europei. E, soprattutto, il traffico di jet privati nel 2022 è aumentato del 64 per cento nel giro di un anno: 572mila decolli e atterraggi. I posti dove si va più spesso col jet privato? Nizza, Parigi e Ginevra. I paesi con più voli privati effettuati: Regno Unito, Francia, Germania. E l’Italia? Siamo il quarto paese europeo per voli privati, 55.624 decolli nel 2022, in linea con la tendenza europea di crescita, + 61 per cento. I voli privati italiani causano le emissioni di 50mila concittadini. La Milano-Roma è una delle tratte più frequentate d’Europa in jet privato, sempre perché il Frecciarossa è strumento troppo popolare. C’è anche il capolavoro di un volo Verona Brescia, 44 chilometri che si fanno in mezz’ora di treno. In totale l’aviazione privata fa fino a 14 volte le emissioni dei voli commerciali e fino a 50 volte quelle di un treno. Sono brioche molto inquinanti. Nicchie che possono non esserlo È uscito anche l’ormai periodico rapporto di Greenpeace con l’Osservatorio di Pavia su quanto i cinque quotidiani italiani più diffusi (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Avvenire, Stampa), i telegiornali Rai, Mediaset e La7 e alcuni programmi di approfondimento raccontino la crisi climatica. Quanto, dunque? Poco. Il periodo in questione è quello che andava da settembre alla fine del 2022, quando l’informazione sui quotidiani è ulteriormente calata, con 2,5 articoli al giorno e due soli picchi, Cop27 e la catastrofe di Ischia. I tg hanno aumentato le notizie sul tema (leggermente), ma si conferma un’eccezione piuttosto problematica: il tg La7, quello meno interessato alla storia del secolo, con solo l’1,4 per cento dei servizi trasmessi. Il programma più virtuoso è Unomattina (wow). Altro aspetto interessante: chi chiamano i media italiani per parlare di questo argomento? Al primo posto i politici e le istituzioni internazionali, al secondo le aziende, al terzo le associazioni ambientaliste, fuori dal podio gli scienziati, solo il 10 per cento degli interventi. E infine, forse il risultato più importante: aumenta la pressione delle aziende più inquinanti (combustibili fossili, automotive, compagnie aeree, crociere) tra gli inserzionisti. Tra settembre e dicembre sono state il doppio di quelle del quadrimestre precedente. Interessante, se uno ci pensa: prima quattro mesi di siccità, poi quattro mesi di spot per alimentare la siccità. Però c’è anche un altro punto: quello di Greenpeace o di Osservatorio di Pavia è un campione, non è tutta l’informazione in Italia, è quella parte di media che per risorse e investimenti si riesce a coprire con la ricerca, ed è sicuramente la fetta più mainstream e influente. Ma non è tutto. Quindi ci sono due livelli: questi sono dati importanti, da conoscere. Ma questa fotografia non è tutto il giornalismo sul clima che si fa in Italia. Questa settimana ho partecipato a un incontro a porte chiuse per discutere di giornalismo, clima, Europa, c’erano una ventina di colleghe e colleghi, era un modo per raccontarci quali erano le storie più importanti, quali quelle meno raccontate, come si poteva lavorare meglio insieme. La biodiversità professionale di quell’incontro era incredibilmente interessante e varia, alcuni li conoscevo, altri li avevo solo letti, altri nemmeno mai letti, perché nessuno legge tutto. «Siamo una nicchia», qualcuno ha detto. In realtà no, non penso. C’erano testate internazionali, piattaforme da milioni di contatti, e c’era soprattutto una qualità media del lavoro altissima, e nicchia non si nasce, non lo si è per destino, non si è strutturalmente nicchia, si lavora con i propri mezzi e le proprie risorse per raccontare la storia più importante e difficile del secolo, e poi i contenuti possono viaggiare. Ad armi pari con un tg serale? Forse no. Sconfitti e condannati al silenzio? Nemmeno. Ormai tutto l’attivismo riconosce l’importanza dell’informazione come strumento di azione per il clima. E ci sono due modi per riconoscere questo valore: il primo è condannare, occupare, denunciare l’informazione fuorviante, tossica, distratta o negazionista. Il secondo è proteggere tutto il resto. Proteggere tutto quello che non è inferno climatico, e farlo durare, e dargli spazio. Uno dei libri più importanti dell’anno E parlando di colleghi bravi, che ammiro e che ci stanno benissimo in questa biodiversità in continua crescita dell’informazione climatica italiana, c’è sicuramente Alessandro Macina, inviato di Presa Diretta, una delle voci più importanti che abbiamo in Italia per raccontare la crisi climatica. E lo menziono perché è da poco uscito il suo nuovo libro. Titolo: Il polmone blu. Salvare gli oceani per combattere il riscaldamento globale (Edizioni Dedalo). È un libro che ho divorato, un viaggio nel collasso di un ecosistema tanto delicato quanto politicamente invisibile, anche se quest’anno abbiamo avuto la notizia dell’High Seas Treaty, l’accordo per proteggere la vita nelle acque internazionali. Il libro di Macina offre un contesto insostituibile per capire perché la diplomazia e la politica dell’oceano sono fondamentali per combattere la crisi climatica. E lo fa con l’occhio di chi ha girato il mondo e visto i problemi sul campo, un reportage vivo, appassionato, documentatissimo, uno dei libri più importanti dell’anno. Per questa settimana è tutto, se hai voglia di parlare, scrivimi a [email protected]. Per comunicare con la redazione, invece, l’indirizzo è [email protected]. A presto, buon sabato, riposati! Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È inoltre autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

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