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Sardegna, motociclista tedesco di 68 anni precipita da un ponte: grave la moglieQuesto è un nuovo numero di Areale,è VOL la newsletter sul clima e l’ambiente di Domani. Questa settimana numero speciale per celebrare il secolo di vita dei due più antichi parchi nazionali d’Italia: il Parco Nazionale del Gran Paradiso e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.  Per iscriverti gratuitamente alla newsletter in arrivo ogni sabato mattina clicca qui e segui tutti i contenuti di Areale. Buongiorno, lettrici e lettori di Areale. Questo è un numero speciale della newsletter, in questo sabato pre-festivo (auguri!). C’è un articolo di qualche mese fa, che avevo condiviso su Areale, che ogni tanto rileggo e che ripropongo. La scrittrice e attivista Rebecca Solnit aveva messo insieme dieci punti per occuparsi di cambiamenti climatici senza farsi prendere dalla paura. Il mio preferito era: non trascurate la bellezza. «Parte di quello per cui stiamo combattendo è la bellezza e questo significa prestare attenzione alla bellezza nel tempo presente. Se dimentichi quello per cui ti stai battendo, rischi di diventare infelice, amareggiato, perduto». Ecco, oggi ci occupiamo di questo, e in particolare celebriamo la bellezza degli ecosistemi italiani, perché c’è una ricorrenza importante da festeggiare. Cominciamo. I primi parchi nazionali italiani I due patriarchi tra i parchi nazionali italiani compiono cento anni, quindi innanzitutto: auguri a loro. Sono nati quasi in parallelo, agli estremi opposti delle montagne italiane. Il Parco Nazionale del Gran Paradiso, in Valle d’Aosta e Piemonte, sulle Alpi, e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sugli Appennini. Sono i due modelli base dell’immenso valore, delle sfide e anche dei problemi della conservazione della natura in Italia, che nasce e parte innanzitutto con loro. Le celebrazioni di questo secolo di vita dureranno un anno e partono ufficialmente il 22 e 23 aprile, con un evento all’Auditorium Parco della Musica di Roma. È una storia importante, che ci riguarda, quindi innanzitutto ne ripercorriamo gli inizi, per vedere a che punto siamo. Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise nasce due volte. La prima per un’iniziativa privata, nell’autunno del 1922. La seconda con un decreto regio, l’11 gennaio del 1923, che mise il sigillo pubblico a un attivismo che era nato sul territorio. Il primo artefice di questa grande storia è stato il naturalista Erminio Sipari, cugino di Benedetto Croce, una specie di padre nobile della conservazione della natura e dello sviluppo sostenibile in Italia. La grande sfida della sua vita, da ambientalista e da politico, fu proteggere quell’angolo di natura di Abruzzo, isolato, con poche strade di accesso, una vecchia riserva reale di caccia, areale di due specie in particolare da tramandare alle generazioni successive, quindi a noi: l’orso bruno marsicano e il camoscio d’Abruzzo. Il modello di Sipari erano i grandi parchi nazionali americani, in particolare quello di Yellowstone. Riuscì a difendere l’area che oggi è il cuore del parco da progetti di sviluppo industriale ed energetico (doveva diventare un bacino per l’idroelettrico) e a farne la prima riserva protetta d’Italia. Sipari fu poi rimosso dal regima fascista, l’ente parco fu soppresso nel 1933 e ricreato solo nel dopoguerra. A suo nome ci sono un bellissimo sentiero nel parco e un coleottero, l’elongata siparii. La Relazione Sipari del 1926 è ancora un documento base della protezione della natura in Italia. La si legge qui. Anche la storia del Parco Nazionale del Gran Paradiso inizia come quella di una riserva di caccia, istituita da Vittorio Emanuele II nel 1856. Solo il re poteva usarla per le sue battute venatorie. E anche qui c’è un animale simbolo al quale il parco ha legato sia la sua storia che la sua identità: lo stambecco. I numeri di questa specie erano preoccupanti alla fine dell’Ottocento, lo stambecco veniva cacciato per la carne, per sport e per i trofei, per farne delle medicine. Se non avessimo avuto il parco, oggi semplicemente non avremmo più stambecchi in Italia. Fu istituito un corpo di guardie specializzate per proteggerli e una rete di sentieri e mulattiere per favorire la conservazione (sono ancora oggi l’ossatura dei sentieri). Nel 1919 Vittorio Emanuele III passò allo stato italiano la riserva, affinché diventasse un parco nazionale, cosa che successe ufficialmente il 3 dicembre del 1922. Anche questo ente fu sciolto dal fascismo nel 1933, l’incuria della milizia nazionale forestale istituita dal fascismo e poi la guerra fecero di nuovo crollare i numeri degli stambecchi, che si sarebbero ripresi definitivamente con la rinascita del parco nel dopoguerra. Altri animali che potete (con un po’ di fortuna) avvistare nel parco: camosci, aquile reali, lupi (moltissima fortuna), volpi, marmotte. Poco dopo i due patriarchi nacquero il Parco Nazionale del Circeo (1934) e quello dello Stelvio (1935). Da allora quella delle aree protette italiane è stata una storia ricca ma anche travagliata, di sforzi e disinteresse, di dissesto economico (fu catastrofico quello del Parco d’Abruzzo, dal quale si è usciti solo con l’ultima gestione), scempi evitati e scempi che non sono stati evitati, come il «sacco del Circeo» e la speculazione edilizia a Pescasseroli. Una linea comune di tutti i problemi di questo secolo è la difficoltà nel coniugare conservazione, sviluppo e turismo. Se dobbiamo però celebrare una tappa in particolare della storia che ci ha portato fino a qui, è sicuramente la Legge sui parchi del 1991, una delle grandi (e non tante) vittorie politiche dei Verdi in Italia, passata definitivamente il 6 dicembre 1991 (quindi freschissima dei suoi trent’anni) con primo firmatario il deputato Gianluigi Ceruti. Le aree protette in Italia erano il 3 per cento nel 1991, oggi sono l’11 per cento, abbiamo 24 parchi nazionali e 30 aree marine protette. I parchi assorbono 145 milioni di tonnellate di CO2, un terzo delle emissioni italiane. Se aggiungiamo la Rete natura 2000 (habitat riconosciuti di valore ecologico e sociale dall’Unione europea) arriviamo al 21 per cento di aree protette. L’obiettivo europeo è arrivare entro la fine del prossimo decennio al 30 per cento. È una strada ancora lunga. Ho parlato di questa lunga strada con Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente. «I parchi hanno reso più bella l’Italia, hanno creato un modello di co-partecipazione che però oggi vive una situazione di difficoltà. Soprattutto a livello regionale, dove viene fatta carne di porco della conservazione, se mi permetti l’espressione». La permetto, certo che la permetto. Un esempio su tutti, il Parco Regionale Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli, una meraviglia in Toscana che rischia di perdere 70 ettari per fare una base militare dedicata alle operazioni speciali, con dentro due poligoni di tiro, una torre di ardimento, una pista per l’addestramento alla guida veloce, un eliporto, campo sportivo e piscina, capannoni e diciotto fabbricati per alloggi, molti edifici di servizio e ampio parcheggio. «I parchi devono imparare a essere l’avanguardia delle politiche di sostenibilità in Italia. Devono fare solo agricoltura biologica, non ci devono più essere allevamenti intensivi dentro le aree protette, devono essere un passo avanti nell’economia circolare e nella mobilità sostenibile. Devono essere i primi della classe della transizione ecologica e questo purtroppo – a parte alcune lodevoli eccezioni – ancora non succede». Un elemento ancora troppo assente, secondo Nicoletti, è paradossalmente proprio la crisi climatica. «Sono ancora pochi i parchi che lavorano seriamente sui propri piani di adattamento, che sono fondamentali. Chi fa conservazione deve essere in grado di sapere se gli animali si nutrono ad altitudini più elevate per via del riscaldamento globale, cosa succede quando si riducono i ghiacciai, come sta cambiando la vegetazione. Ma i parchi nazionali sull’adattamento sono all’anno zero». Una storia utile per comprendere la complessità dei due parchi nazionali neo-centenari è quella dell’orso bruno marsicano in Abruzzo. Una specie che sta bene, ma non ancora così bene, che vive su un crinale sottile e in una situazione di costante assedio: se il principale pericolo di vita per un animale così raro, protetto e simbolicamente importante è morire per un incidente stradale (l’ultima volta è dello scorso autunno), allora qualcosa è andato storto. Gli orsi marsicani ora sono tra i cinquanta e i sessanta esemplari (prossimo censimento genetico nel 2023), è una popolazione stabile ma ancora troppo piccola per essere resiliente. Basterebbero delle annate negative per le nascite o la perdita prematura di alcune femmine per mettere in crisi la specie. Gli orsi marsicani avrebbero bisogno di crescere in numero e per farlo devono potersi espandere, agli orsi serve spazio, perché quella marsicana è la popolazione più densa al mondo. Noi siamo disposti a concederne? L’Appennino centrale potrebbe ospitarne fino a duecento, secondo una ricerca della Sapienza, quelli sarebbero numeri stabili con i quali guardare con ottimismo al futuro. Per poter viaggiare, colonizzare stabilmente il Parco della Maiella, i Monti Sibillini, e altre aree idonee, gli orsi hanno bisogno di strade e autostrade messe in sicurezza, servono barriere, corridoi ecologici, più segnaletica, meno frammentazione dell’habitat (quelle dell’Appennino sono quote basse e con sempre meno neve, ma si continuano a costruire impianti per gli sport invernali, investimenti condannati al fallimento) e soprattutto comportamenti diversi da parte di chi frequenta il parco. Da parte di automobilisti, motociclisti e anche turisti. Oggi l’orso marsicano è la star locale, ogni pacchetto turistico prevede e promette avvistamenti, e la giusta distanza è uno dei concetti più difficili da far passare al turismo. Non è un equilibrio facile. Come mi ha detto il direttore del Parco Luciano Sammarone: «L’orso è il miglior promotore del territorio, ma è stato più facile spiegare ai nostri nonni pastori e boscaioli perché fare un passo indietro per proteggerlo, che farlo capire ai turisti oggi». Un’ultima storia sui parchi nazionali centenari e la loro ricerca di questo difficile equilibrio viene dal Gran Paradiso: il tentativo di istituire una «montagna sacra», con un invito pubblico a non salirci. Me ne ha parlato Toni Farina, storico socio di Mountain Wilderness e rappresentante delle associazioni ambientaliste all’interno del consiglio direttivo del Parco. La cima scelta per questo tentativo di sacralizzazione laica è il Monveso di Forzo. Perché proprio questa? «È sul crinale tra le due regioni del parco, è poco salita, non ha alcun interesse alpinistico e poi è una bella piramide di 3.300 metri, la sua forma ricorda quella del Monviso». Questa campagna prova a sfruttare il secolo di storia che celebriamo per promuovere una cosa di cui un ambiente fragile come la montagna italiana ha un disperato bisogno: una nuova cultura del limite. Non sarebbe una montagna sorvegliata né ci sarebbe alcun divieto ufficiale, è un’iniziativa che si gioca tutta sul piano del simbolico. Un modo per ricordare le pressioni ecologiche che sta affrontando questo parco centenario, e ce le elenca Farina: «Carenza di personale, non si è investito in riserve integrali, troppo turismo adrenalinico, troppi mezzi motorizzati, troppi sentieri rovinati. Non possiamo più permetterci il “no limit” in un’area protetta nel 2022». Per questo numero speciale di Areale dedicato alla lunga e importante storia dei parchi centenari è tutto. Anzi no, se avete voglia, avrei voglia di conoscere la vostra storia di persone che li frequentano o che ci lavorano: cosa vedete? Come stanno andando? Qual è il futuro dei parchi nazionali italiani? Scrivetemi a [email protected], per comunicare con Domani invece la mail è [email protected] A presto! Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni).

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