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Il testo e la traduzione di “I p’ me, tu p’ te”, canzone di Geolier a Sanremo"scoedi a sedi" - soddisfare la seteMattina di dolci incontri. Mattina di dolci incontri. Il caldo d'agosto di fa sentire. Giusepèn è "a pusi" (al riparo) del pergolato in giardino e si asciuga "cunt'ul mantèn" (il fazzoletto-piccolo) il sudore che gli cola dalla fronte. Gli vedo il "sorriso-furbo" che mostra ogni qualvolta che ci incontriamo. Non saprei descrivere meglio,-investimenti la cordialità con cui Giusepèn mi intrattiene. E talvolta, è lui a lanciare il sasso col fatidico "sa gheu vent'àn menu" (se avessi vent'anni in meno) e saprei cosa rispondergli, ma non lo faccio. So che poi si sconfinerebbe nella melanconia e non mi garba proprio, vedere gli "occhietti-furbi" mutarsi in "occhietti tristi".Il nostro dialogo comincia dalla campagna-arsa, dai lavori d'una volta "al raustu" (al ferragosto), all'uva che espone i suoi grappoli maturi "sui toppi" (le toppie), alla pulizia della campagna che si preparava al "cata su i patoti" (raccogliere le patate) di settembre."Mò, l'è ua da scoedi a sedi" (adesso è ora-tempo di soddisfare la sete) dice perentorio. Ci soffermiamo su quel "scoedi a sedi" che ha un'etimologia "strana", nel senso che "scoedi" non ha una derivazione Bustocca, ma è piuttosto Ligure, come si può evincere dalla "cantilena" con cui la si pronuncia. Del resto, "scoedi" da solo, non è verbo traducibile. Lo è, con il complemento "sedi" che specifica il "cosa" si vuole soddisfare. Quindi, "scoedi a sedi" è semplicemente "soddisfare la sete" che è deducibile in "bere". Qui, sta bene una "colorazione" della frase; un abbellimento del suo significato. La fantasia della semplicità che usavano i Contadini, gli Operai, le Massaie; gente di strada. I "sciui" (i ricchi), gli "imparati", i figli di papà, nemmeno conoscevano il significato del Dialetto "ruspante", intriso di modi di dire milanesi o (peggio) italiani.Bere in compagnia, inoltre, aveva differenti espressioni, come a dire "bei'n gutèn" (bere un goccio) e si fa per dire; "ul gutèn" si riferiva al vino, in modeste quantità. C'era "ul bianchèn" (vino bianco) e, per tutto il resto (alcoolici compresi) si usava l'espressione "a lasàl voei" (lasciarlo vuoto) e ci si riferiva al "biceu" (bicchiere), "bicèen" (bicchierino) che i "forbiti, i sciui" dicevano "bicerèn", ma si capisce che "bicerèn" non è parola autentica Bustocca: viva "un "bicèen".I Contadini, spesso, sotto il solleone della mietitura "ga dean 'na tetàa" letteralmente, una "tettata" come se la scodella o il mestolo fossero parte delle "tette", il seno delle donne. "Daghi 'na tetàa" era sinonimo di bere, ma in maniera consona, senza imbrattare lo stomaco o fiaccare le forze. Bere per "scoedi a sedi" e mai, ma proprio mai con esagerazione.Ovvio che dopo aver trascorso dalle 5 del mattino alle 11 "sut'al rabatòn dul su" (sotto il sole cocente) il lavoro pesante della campagna (come ad esempio, il volta e rivolta il fieno che poi sarebbe pronto per i covoni), occorreva una "maenda" (merenda) - e qui c'era un rito, un'abitudine da rispettare. Ci si fermava appena la mamma (a masèa) portava sulla "baziglia" (vassoio) pane, salamini di cavallo, il fisco di "mericanèl" (vinello rosso di uva clintòn e "bucèi" e si procedeva al …. ristoro. Per poi riprendere il lavoro che si prolungava sino alle 13 circa (candu ul su al pica forti" (quando il sole picchia forte), coi suoi raggi implacabili che consigliano "un ripusèn" un riposino, la "siesta" di un paio d'ore. Al tramonto, si svolgevano lavori "leggeri" come il "guernò i pui" (governare i polli) con visita al pollaio, raccolta delle uova e pulizia dell'ambiente, per poi procedere alla distribuzione di granoturco e granaglie varie. Il chiocciare delle galline, era quasi un frastuono, ma per i piccoli era una specie di musica. Sapevano (i pargoli) che l'uovo "offerto" nel pollaio, andava bevuto (proprio così, "beù" bevuto) "intantu ca l'è coldu" (mentre è caldo), dopo averlo passato sugli occhi chiusi. Buco col dito, albume succhiato e tuorlo da "masticare" quasi. "S'à benedissi a vista e a gua" (si benedice la vista e la gola) ci dicevano e lo dice tuttora Giusepèn.Il tempo -inesorabile- trascorre e vedo Giusepèn che "si prepara" ai saluti. Lo fa con una mimica particolare, come se stesse preparando un "discorso di commiato" particolare, riservato alle persone di famiglia. E lo fa, dopo un abbraccio frugale: "fò'l brou" (fa il bravo) e mi evoca la stessa frase che mi "propinava" mamma, ogni mattina prima di recarmi al lavoro. Vero che col "fòl brou" si dice tutto (e si dice nulla), ma è un motivo da ricordare per dire "sta tenti" (stai attento) e anche qui, lo "stare attento" è un'invocazione completa …..comportati bene, occhio ai pericoli, attento alla genti che incontri, non farti fottere (scusate la parola, ma è così) dalle lusinghe e dalle cattive compagnie.Il saluto non si può concludere col Nocino "l'è matina" (è mattina) e Giusepèn volge uno sguardo alla sua Maria, come ad avvisarmi "l'è furba mel diavaen e l'a oei non ca ma'n ciuchisciu" (è furba come il diavoletto e non vuole che mi ubriachi) - consentitemi una chiosa. Dire "furbu mel dioùl" è negativo (furbo come il diavolo, sa di raggiro) - "furbu mèl diavaèn" (diavoletto) è un'espressione dolcissima, intima, che profuma di innocenza e di freschezza di cuore. Gianluigi Marcora
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