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Discesa libera sul ghiacciaio tra Zermatt e Cervinia: lo sci chiude gli occhi sulla crisi climaticaLa riforma Bonafede,ìiprocessisiestinguerannoancheseilprimogradoèETF con tutti i suoi limiti, poneva però un freno alle impugnazioni meramente dilatorie. La riforma Cartabia invece incentiva a difendersi dal processo, invece che nel processo, perchè non limita le impugnazioni che ingolfano la macchina giustizia Il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado previsto dalla cosiddetta "riforma Bonafede", con tutti i suoi limiti (tra cui, uno su tutti, quello di aver equiparato a tal fine le sentenze di assoluzione a quelle di condanna), aveva quanto meno il vantaggio della chiarezza: poneva un freno alle impugnazioni meramente dilatorie. Chi impugnava, infatti, sapeva che, non potendo più lucrare la prescrizione in appello o in Cassazione, avrebbe dovuto farlo soltanto per ottenere una sentenza di merito più favorevole. La maggiore criticità della riforma Bonafede, a mio avviso, consisteva nel non aver previsto alcuno strumento per garantire che i processi, nei gradi successivi, venissero definiti in tempi certi e, più in generale, nel fatto di aver affrontato il tema della prescrizione in maniera atomistica, senza porsi in alcun modo quello della "ragionevole durata" del processo penale e della "tenuta" del sistema accusatorio. E in tal senso - fermo restando che il giusto processo non può essere valutato soltanto in termini di durata, ma richiede anche la salvaguardia della correttezza della decisione, che deve giungere all'esito di un dibattimento di primo grado che si celebri con i suoi tempi, spesso commisurati alla complessità dell'accertamento, e nel rispetto dei diritti di difesa dell'imputato (non apparendo preferibile invece la celebrazione indefettibile di tre gradi di giudizio, per cercare di riparare i guasti di un processo celebrato in maniera frettolosa e sommaria) - sono d'accordo con quanti hanno osservato che la strada maestra per ricompensare l'imputato per l'eventuale eccessiva durata del processo poteva essere quella di prevedere un meccanismo di riduzione della pena inflitta dal giudice di prime cure, in misura proporzionale alla durata del processo di gravame. Gli errori di Cartabia Nulla di tutto questo. La proposta di riforma elaborata dalla Ministra Cartabia - al di là della "frode delle etichette", che si realizza affermando, da un lato, di voler mantenere il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado e, dall'altro, di introdurre una improcedibilità del processo, ove quest'ultmo non venga definito nel termine perentorio indicato dalla legge - ha come effetto principale quello di incentivare nuovamente comportamenti dilatori volti a difendersi dal processo, anziché nel processo. Se dovesse essere approvata questa riforma, infatti - che nulla prevede per cercare di contenere il numero delle impugnazioni e di ridurre i tempi di celebrazione dei giudizi di gravame - è concreto il rischio che le sentenze di condanna continueranno ad essere impugnate tutte, senza esclusione, nella speranza (che spesso diventa certezza) di ingolfare la "macchina" giudiziaria ed ottenere l'estinzione (non già del reato, ma) del processo. E poco importa cercare di comprendere in che cosa si differenzierà questa nuova improcedibilità, rispetto alla vecchia prescrizione, dal momento che l'effetto sarà in ogni caso quello di porre nel nulla le sentenze alle quali si è faticosamente pervenuti in primo grado. Ma vi è di più. Se ben capisco il funzionamento della improcedibilità, qualora la fase di gravame non dovesse concludersi nei tempi previsti dalla legge (cosa alquanto probabile, se, come sembra, non si è voluto abolire nemmeno il divieto di reformatio in peius, ovvero il divieto che la sentenza di primo grado impugnata venga riformata in appello con una pena peggiorativa rispetto a quella del primo grado), in appello o in Cassazione moriranno inesorabilmente anche i processi nei quali la sentenza di primo grado è stata pronunciata in tempi rapidissimi, magari a ridosso del fatto. Se oggi, infatti - con la prescrizione - occorrono mediamente sette anni e mezzo dalla commissione del fatto per ottenere una declaratoria di estinzione del reato; domani - con il nuovo istituto dell'improcedibilità del processo (che, in caso di ritardo, lo farà "deragliare" su un binario morto) - basterà che la sentenza di appello o di Cassazione non venga pronunciata nei due o tre anni successivi alla sentenza di primo grado, per poter giungere allo stesso risultato. E ciò anche se, per avventura, la prescrizione del reato non si è affatto maturata e, in teoria, è ancora molto lontana dal verificarsi. A questo punto, paradossalmente, per risolvere gli inconvenienti che taluni hanno lamentato con il blocco della prescrizione, sarebbe stato preferibile abolire del tutto la "riforma Bonafede" e ritornare semplicemente al sistema vigente prima del 2020. © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFabio Lombardo Gip di Arezzo
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