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Ponte Morandi, il quartiere è abbandonato a se stesso: dopo 5 anni la prima nuova palazzinaUn prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia e significa mancare il bersaglio nel tiro con l’arco. Questo sacramento è un modo per riaccendere una combustione,ETF far ripartire un dialogo, più sommessoSe qualcuno mi avesse detto che a un certo punto sarei stata invitata alla Penitenzieria apostolica (che fino a ieri non avevo idea di cosa fosse), non ci avrei creduto. Come però non avrei creduto praticamente a niente di quello che è la mia vita, compreso il fatto di innamorarmi, battezzarmi a 37 anni, incontrare persone orrende e straordinarie, diventare grande, a un certo punto magari morire, eccetera. E così a maggio ricevo la proposta di partecipare al seminario “Celebrare il sacramento della confessione oggi” organizzato proprio dalla misteriosa Penitenzieria apostolica. Superate sorpresa e lusinga, ecco la sindrome dell’impostore (o impostora?). Perché proprio io? Davanti a teologi, che posso dire di non già detto? Pentendomi, appunto, ho accettato.Eccomi oggi in pieno scirocco che salgo le scale del palazzo della Cancelleria, sede del tribunale della misericordia. Penso che dovrei tornare a casa, mentre guardo il cortile magnifico – ci sono anche la Sacra Rota e la Segnatura apostolica – perché ho accettato? Incrocio qualche suora, un paio di preti giovani, poi vedo gli altri che parleranno, come me: religiosi, una ragazza con i capelli inzeppati sotto il velo, un signore laico con la faccia da prete, e io? Piena di vanità, il serpente e la fede tatuati sulle dita, i capelli lucidi, il rossetto. I jeans attillati. Che c’entro? Nella sala affrescata, immensa, le virtù cardinali mi fissano dall’alto. Mi siedo, inizio a parlare.La prima volta«La prima volta che mi sono confessata è andata malissimo. È successo parecchio tempo dopo il mio battesimo in una gigantesca basilica romana; pensavo che confondermi tra turisti e pellegrini fosse il modo migliore per avvicinarmi all’incontro con il perdono. Avevo aspettato tanto perché mi pareva inaccettabile pareggiare i conti con questa e ogni dimensione semplicemente raccontando i miei “peccati” a uno sconosciuto. E poi non volevo cancellare i miei errori e non so perdonare; esistono la cattiva memoria e l’oblio. Non mi serviva altro.Dopo il mio iniziale imbarazzo: buongiorno? C’è qualcuno? E il tentativo scocciato del prete di spiegarmi la formula giusta, gli ho raccontato la mia vita dal battesimo in avanti. E poi lui: va a messa il giovedì e non la domenica, fa sesso fuori dal matrimonio, ma secondo lei Dio è contento? E allora abbiamo iniziato a litigare. A dire la verità ho iniziato io. È a causa di persone come lei che le chiese sono vuote.Poi gli ho fatto notare che se riduciamo il Mistero a una questione morale, allora viene meno il senso di tutto. Sono scappata via pensando che potevo credere in Dio senza confessarmi: non mi sarei mai più messa in una situazione così umiliante. Eppure sapevo che quella scena l’avevo voluta io. Avevo ridotto un sacramento a un individuo, in più odioso. Invece dovevo parlare direttamente con quello che rappresentava, di cui era un simbolo, e usare la liturgia per assicurarmi il dialogo, altrimenti muto, con il Mistero.Con un Dio che così si mostra a noi tutti vivente. Per fortuna noi umani siamo incomprensibili e per una serie di reazioni e incontri e ripensamenti, ho cambiato idea, basilica e soprattutto confessore. E così ho scoperto il potere di questa relazione, che Jung definiva “l’anticamera della psicanalisi”.Ma, a ripensarci oggi, la vera difficoltà di quella prima volta e poi di sempre era il racconto. Quale storia raccontare al prete, o scrivere, o trasformare in film? Come faccio a scegliere i fatti giusti (che in questo caso sono quelli sbagliati)? E quali fatti-azioni-intenzioni oggi possiamo chiamare peccati? Peccare è ancora trasgredire i dieci comandamenti o anche altro, che ha a che fare con l’uomo contemporaneo, i suoi problemi, i pericoli che incontra, la salvezza che sfiora, desidera e ripudia.La frecciaUn prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia, e significa “mancare il bersaglio” con il tiro con l’arco. Niente a che fare con il latino peccatum che evoca un errore di altra natura, pieno di colpa. Oggi, però, quello che mi pare il mio vero peccato è la poca fede nel senso che dovrebbe appartenere cose e persone, le nostre azioni, relazioni, sentimenti, quindi anche le nostre opere, e non dovrebbe, nella mia idealizzazione infantile e insopportabile, avere a che fare con il nostro successo – il dispiegarci nel mondo secondo i criteri del mondo – ma solo con il nostro talento di esseri umani.Dal mio battesimo in poi è successo di tutto, pandemia, guerre, malattie mie e di persone vicine. In questa antologia di sciagure, a un certo punto c’è stata una bella notizia: dovevo girare il film tratto dal mio romanzo Ama e fai quello che vuoi, la storia (anche) della mia conversione.Ma il film non trovava la sua forma. Mi pareva sbagliato ripetere cose già dette; pura vanità. Finché, dopo infiniti tentativi, io e la sceneggiatrice eravamo riuscite ad aggiornare il libro. La vita era andata avanti, per fortuna: quindi non più come si diventa cristiani, ma come si resta cristiani nel tempo e sé stessi (anche all’interno di un’istituzione discutibile come la chiesa). Il film era il racconto della prima confessione della protagonista, e iniziava con questa battuta (da niente): “Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no?”Nel tempo sono diventata amica di un giovane prete che è diventato il mio confessore. Spesso al bar ha imposto le mani sopra la mia testa per lasciarmi raccontare “i miei peccati”. La volta in cui mi sentivo “meno cattiva”, con meno miserie, mi sono sentita anche meno “fedele”, meno innamorata. Come se la relazione (anche con Dio) fosse diventata tiepida. Allora quale era il vero peccato? Quelli che avevo raccontato o questa sensazione, quest’abitudine a una “cosa” cui avevo promesso di non abituarmi mai?Mi aveva assolto senza penitenze (sempre riflessioni, mai preghiere). Io però sapevo che la mia vera penitenza era stata ascoltarmi parlare di quest’amore sbiadito, quest’ardore annoiato. La confessione è un modo per riaccendere una combustione, far ripartire un dialogo, più sommesso o più chiassoso, tra le cose e il resto, tra questo mondo e tutto l’invisibile da cui è circondato.Il misteroE allora ecco che la Riconciliazione, in cui si inverte il rapporto causa-effetto e si rimette in piedi una cosa crollata, permette di tornare al momento prima della rottura della relazione, qualunque sia, compresa quella tra noi e il Mistero di Dio. In qualche modo si riavvolge il nastro, ma non è ipocrisia. L’errore non si annulla, ma smette solo di essere un ostacolo e si trasforma in storia.D’altronde l’irreversibilità è tipicamente umana. Il tempo ha una freccia, la forza di gravità ha una freccia, i nostri anni, le nostre giornate, la nostra faccia che invecchia eccetera. C’è però una strana cosa che è la reversibilità che concede la grazia del Mistero. Ed è questa per me la vera Riconciliazione, il rinnovamento di un patto: continuare a fare un discorso anche quando non hai voglia di ascoltare, non interrompere la costruzione del mondo.Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no? Ecco, sono certa che qualcuno risponderà con le parole che mi ha detto un cardinale: puoi non essere più sicura di credere in Dio, ma Dio però non smette di credere in te. Certo, a volte questa fiducia, sguardo benevolo su noi e tutto, sembra impossibile.Proprio come impossibile sembra l’eternità, punto di fuga di ogni rappresentazione del mondo, fuori dall’immagine ma necessario alla costruzione di quella stessa immagine. E di quel mondo che poi è il nostro. E la cosa che mi sconvolge ogni volta, è che tutto questo, che è un universo di libertà e dolore, di inadeguatezza e compimento, d’amore, passa sempre per la parola. Nostra e non solo. Grazie».Che c’entro in questo seminario? Non lo so. C’entro qualcosa? Forse, no, sì? Dopo di me hanno parlato signori austeri ed entusiasti, pieni di dolore, con storie enormi e tristissime. Mi sono sentita fuori posto e nel posto giusto, ho desiderato scappare, chiedere scusa, impormi e pure sparire. Ma alla fine il reggente della Penitenzieria mi dirà grazie. E io: mi rendo conto dell’anomalia che sono. E lui: Grazie proprio per quella. Tutto brilla in questa stanza. Non lo vede?© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediElisa FuksasRegista e scrittrice. Dopo i primi cortometraggi, tra cui Please leave a message con cui si aggiudica nel 2007 il Nastro d'Argento, gira il documentario L'Italia del nostro scontento insieme a Francesca Muci e Lucrezia Le Moli. Tra gli altri documentari: Black Mirror. A journey with Mat Collishaw e ALBE, A Life Beyond Earth. Il suo primo film è Nina del 2012. Nel 2019 ha diretto “The App” per Netflix. Ha pubblicato La figlia di (Rizzoli Editore), Michele, Anna e la termodinamica (Elliot) e nel 2020 Ama e fai quello che vuoi (Marsilio).

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